Comunità Cristiana di Base "Piazza del Luogo Pio" - Livorno
IN PRINCIPIO ERA LA COSCIENZA
Laboratorio Teologico 1995
E' una iniziativa che si collega ad analoga del 1993 su RELIGIONI - PACE - CONFLITTI.
Quest'anno i tre incontri anticipano il tema del XII Seminario delle Comunità di
Base che si terrà proprio in casa nostra (Tirrenia-Livorno 8/10 dicembre): IN
PRINCIPIO ERA LA COSCIENZA.
L'articolazione avrà varianti rispetto al seminario e si affida ad una elaborazione
meno pretenziosa, tutta in proprio. Un piccolo LABORATORIO TEOLOGICO, cioé
teologia in ricerca e in sperimentazione in quanto "studiata" nell'esperienza più che su trattati.
IL PROGRAMMA:
- Venerdì 13 Ottobre: Coscienza: soltanto un concetto o riferimento ineludibile? Introduce Gaia Marsico
- Venerdì 20 Ottobre: Obiezione di coscienza: eccezione o stile di vita? Introduce Andrea Valdambrini
- Venerdì 27 Ottobre: Coscienza ed appartenenza Introduce Martino Morganti
La Comunità Cristiana di Base "Piazza del Luogo Pio" - Livorno
* I contributi che proponiamo hanno aperto, nei tre incontri, un colloquio a molte
voci. Qui,
tradendo la loro destinazione, diventano dei monologhi privati degli interessanti
interventi che li avevano
integrati. Questi ultimi li abbiamo dovuti sacrificare per non allungare troppo il
numero di
queste pagine.
- COSCIENZA: SOLO UN CONCETTO O RIFERIMENTO INELUDIBILE?
Introduce: Gaia Marsico (13/10/95)
Come ha detto Martino, l'argomento e' molto generico e la risposta
all'interrogativo del titolo e' abbastanza ovvia; quando sono andata ad inquadrare
l'argomento ho avuto qualche difficolta' perche' non sapevo quale taglio dare, poi mi
ha aiutato il titolo generale, "Laboratorio teologico". Se facevo un excursus su tutte
le teorie filosofiche del termine "coscienza" finivamo a parlare del concetto in modo
speculativo. Invece la risposta presuppone una riflessione sulla coscienza come
"riferimento". Ho scelto invece di fare dei richiami sul piano teologico per cercare
di collegarmi all'argomento di fondo.
La risposta all'interrogativo mi sembra ovvia ma mi ha fatto riflettere sul fatto
che la coscienza intesa come riferimento ha a che fare con un ambito molto
concreto: quello della scelta, l'ambito che si dice del discernimento. Se la coscienza
e' legata al contesto del discernimento e' ovvio che e' un riferimento e non soltanto
un'idea sulla quale speculare ed e' un riferimento ineludibile perche' necessariamente,
di fronte alla scelta, io devo prendere posizione. Non sempre si tratta di scelte
banali, ma spesso di scelte molto forti della vita.
A
livello di primo approccio la coscienza la sento spesso come fedelta' alla
verita', una parola un po' grossa, come onesta' a se stesso, fedelta' e rispetto alle cose
nelle quali una persona crede. Poi, approfondendo, mi sono accorta che "coscienza"
e' un termine che ha tantissimi significati e che anche per i vari autori che si
possono incontrare la coscienza ha prima di tutto un significato psicologico; puo'
essere il super-io, l'io, ma anche nel linguaggio comune si dice "Ha perso coscienza,
non ha piu' coscienza", quando uno e' in coma, per esempio. Spesso nel linguaggio
comune per coscienza si intende "il cercar di capire", "il giudicare le cose" e a volte
diamo un significato, sempre intellettivo, ma piu' profondo: coscienza come facolta'
alla quale compete il giudizio sul moralmente buono e il moralmente cattivo, e qui
si entra gia' nello specifico.
Poi c'e' un
significato volitivo e coscienza puo' essere intesa come sinonimo di
cuore, di intenzionalita'. Infatti si trovano vari autori che danno a questo termine dei
significati specifici. Per esempio: S. Tommaso usava spesso "atto volontario
interno" per coscienza; in Kant si trova il termine "volonta'"; in Rahner si trova il
termine "intenzionalita'" e per Newman "sentimento dei valori". Già quest'ultimo è
piu' esplicito: è ciò che mi fa percepire i miei valori di riferimento.
Poi, infine, c'e' un significato parenetico: coscienza come esortazione. Questa
esortazione potrebbe essere intesa nel senso teologico come "voce di Dio", come
Dio che parla al cuore dell'umanita', oppure come una chiamata, anche in senso
laico, cioe' un'esigenza forte che mi esorta a comportarmi in un certo modo.
Ho trovato poi un testo di Chiavacci, "1 volume della teologia morale", dove la
coscienza viene definita da quattro relazioni, in questi termini: nel tradursi del
comportamento morale si realizza all'interno della mente una serie complessa di
relazioni e queste relazioni le possiamo indicare col termine coscienza. Queste
quattro relazioni sono relazioni tra l'io come attivita' pensante e come identita'
costante, cioe' l'autocoscienza. Quel senso della coscienza indica il rapporto dell'io
con se stesso e quindi dell'io nel mio agire concreto; tutti i giorni cerco una fedelta'
a me stesso. Costruisco me stesso nella scelta e ogni scelta e' una scelta di fedelta',
anche se non e' mai pura ripetizione perche' io mi devo confrontare con altre cose
che possono cambiare. Questo rapporto tra l'io come attivita' pensante e l'io come
attivita' costante, l'autocoscienza, implicherebbe un'altra relazione tra l'io e
l'Assoluto, comunque lo si intenda.
L'autore che citavo non da' al termine "assoluto" un senso soltanto teologico
perche' l'assoluto puo' essere anche un valore, un qualcosa che mi richiama, che mi
esorta a comportarmi in un certo modo. Quindi, quest'ultimo rapporto puo' essere
inteso come un rapporto tra me e Dio oppure tra me e un "qualcosa": un valore
grande, la pace, la difesa della vita. Pero' l'io ha anche di fronte una situazione, la
realta' concreta; quindi la coscienza e' anche la relazione, il confronto fra l'io e la
situazione, fra l'io e il momento. Questa e' l'area del discernimento. Io di fronte alla
situazione, alla realta' concreta mi devo porre in un atteggiamento di
"discernimento".
Infine l'ultima relazione che definisce la coscienza e' il rapporto tra l'io e la
legge morale, esterna a lui; questa puo' essere una legge morale in senso sociale
oppure in senso teologico. Si apre qui il problema, in senso teologico, della validita'
di una teologia morale come anche di ogni forma di teoria etica normativa. E'
importante sottolineare che la coscienza deve essere libera e autonoma, altrimenti
non e' coscienza, e' pura applicazione di precetti. Libera fino a un certo punto perche'
e' difficile, forse impossibile, che sia libera da quello che prima si e' definito
l'"assoluto", dai valori di riferimento che chiunque ha. Un qualcosa per cui viviamo
che si puo' chiamare Dio, fraternita', pace, qualcosa comunque che non mi rende
libero dentro, che mi vincola e che, come si e' detto, mi fa essere fedele a me
stesso.
Questa e' l'unica legge che vincola la coscienza. A questo punto sembra che
venga meno la validita' della teologia morale, anche se non e' detto che teologia
morale voglia dire etica normativa.
Per quanto riguarda i riferimenti piu' prettamente teologici ci sono varie
interpretazioni, comunque sembra che nell'antico testamento e anche nel Vangelo
molto spesso la coscienza venga indicata con il termine "cuore"; per esempio in
Geremia 31 si trova "Porro' la mia legge nel loro animo e la scrivero' nel loro
cuore". Anche nel Vangelo si trova "Laddove e' il vostro tesoro sara' il vostro
cuore", "Dal cuore degli uomini escono le intenzioni cattive". Per cuore si intende
l'interiorita', la coscienza, anche se in modo non esplicito. Il termine coscienza si
trova inoltre nel libro della Sapienza; questo termine e' un termine greco e si trova
appunto in uno dei libri sapienziali per influssi ellenistici. Tuttavia anche in questo
contesto sembra che non abbia un senso propriamente morale ma che sia
riconducibile al senso stoico, come condotta di vita buona, non come senso morale
profondo.
Il termine coscienza invece si trova in modo complesso ed elaborato, spesso in
modo esplicito o implicito, in S. Paolo. Nelle lettere si trovano varie citazioni del
termine coscienza di origine greca e assumono vari significati: coscienza come
consapevolezza prima che giudizio, coscienza come testimonianza del bene o male
fatto, coscienza come discernimento e consapevolezza del bene e male in generale,
coscienza morale antecedente alla scelta; come funzione di discernimento, infatti
troviamo scritto "agire per motivo di coscienza", inoltre come radicale rapporto con
Dio e sembra appunto che coscienza talvolta si identifichi con fede, anche a livello
terminologico, in quanto non esistono due rapporti con Dio, uno speculativo e l'altro
pratico, ma di un unico rapporto profondo.
Quindi il senso che dà S. Paolo al termine coscienza e' molto articolato, non e'
univoco e ci sono anche qui richiami al rapporto tra il termine coscienza e la legge;
ci si chiede che senso ha seguire la coscienza, che senso ha seguire la legge.
Si trova un'interpretazione particolare, certamente non condivisa da tutti da
Romani 2, 13 "Non coloro che ascoltano la legge sono giusti davanti a Dio ma
quelli che mettono in pratica la legge saranno giustificati". Sembra secondo alcune
interpretazioni che in questo caso non si possa ridurre il verbo greco "mettere in
pratica" al significato che diamo noi; sembra che possa significare "costruire la
legge, fare la legge", mettere in pratica in questo senso. Ci sono dei testi che hanno
approfondito l'interpretazione di questo versetto nel senso che sono giusti quelli che
producono con una attivita' personale e razionale il modo migliore per essere fedeli
alla legge, sono quindi degli agenti, dei soggetti che agiscono e quindi elaborano e
non soltanto mettono in pratica.
Ho trovato comunque dei testi nei quali non viene messa in dubbio
l'interpretazione di "mettere in pratica".
Ci sono indicazioni importanti sempre in Paolo, Rom. 14 e Cor. 10, in cui la
coscienza e' intesa come liberta' dalla legge, da prescrizioni. Queste sono
interpretazioni che provengono da testi non universalmente condivisi ma per i quali
sentivo una certa affinita'.
Sembra che cio' che giudica ogni scelta sia l'amore che non puo' conoscere gli
irrigidimenti dei precetti, quindi della legge. Quindi la coscienza e' anche cio' che mi
fa superare la legge, mi rende libero dalla legge. Vedremo come tutto questo oggi
sia stato messo in discussione; c'e' stata infatti un'evoluzione, forse una
"involuzione", del pensiero teologico. L'autocoscienza cosa diventa? La
consapevolezza di me stesso che e' uguale alla coscienza dell'essere di fronte a una
esigenza forte, una chiamata, un confronto con un valore; quindi il precetto, la
regola non puo' nascere fuori della coscienza, ma deve nascere dentro la coscienza e
deve essere frutto di un lavoro interiore del singolo, un lavoro di discernimento.
Da
questo credo che si possa dedurre che la morale cristiana deve essere autonoma non
tanto da Dio tanto da leggi costruibili, proprio perche' la coscienza ha un valore
profondo; non e' soltanto qualcosa che mi aiuta a capire le regole, ma mi fa
produrre un certo tipo di ragionamento e di comportamento.
Si puo' trovare per questo anche un incontro tra quello che e' la morale cristiana
e la morale laica.
Nella Gaudium et spes c'e' un paragrafo dedicato alla coscienza molto
significativo. In questo leggiamo "E' nella fedelta' alla coscienza che credenti e non
credenti si possono incontrare" ed inoltre "La coscienza e' il sacrario dell'uomo, e' il
luogo dove nessuno puo' entrare". Questo passo ultimamente ha fatto discutere; si e'
ritornati sull'argomento in modo diverso. In questo modo di vedere la coscienza e' si'
una fedelta', ma una fedelta' al gia' pensato, gia' fatto, gia' detto. Ma la coscienza e'
fedelta' ad un cammino di discernimento, di ricerca della verita' e quindi non puo'
essere ripetizione di qualcosa che altri abbiano elaborato prima. Ripeto che in questi
ultimi tempi nell'ambito della teologia cattolica ci sono molti allarmi, paure. Per
esempio se si confrontano i due testi, Gaudium et spes e Veritatis Splendor si trova
un tono molto diverso pur partendo da queste affermazioni della Gaudium et Spes
dove si legge: "Nell'intimo della coscienza l'uomo scopre una legge che non e' lui a
darsi", "L'uomo ha una legge scritta da Dio nel suo cuore". Nell'altro testo ci sono
frasi molto forti. C'e' un capitolo "La coscienza e la verita'" dove il primo paragrafo
riprende la Gaudium et spes ma il tono e' completamente diverso; si parte con il dire
che la coscienza e' sacra per poi arrivare ad affermazioni molto particolari e assai
diverse da quelle che si trovano nei testi di Chiavacci ed Haring, i quali danno una
lettura singolare, anche se sempre nell'ambito della cultura cattolica. Esempio di
alcune affermazioni sono: "Alcune tendenze culturali separano fra loro legge e
liberta' e conducono ad una interpretazione creativa della coscienza morale che si
allontana dalla posizione del Magistero. La coscienza non deve essere creativa".
E'
curioso ricordare che in uno dei testi piu' famosi di Haring si trova un capitolo
intitolato "Coscienza creativa e liberta' creativa". E' questa la teologia che deve
essere cambiata. Siamo in tempi di restaurazione della teologia morale e la
coscienza e' uno dei concetti su cui maggiormente si torna a riflettere. Si ha paura
della coscienza perche' questa porta alla liberta' di coscienza e dunque al relativismo.
In questi termini la coscienza e' uno strumento di giudizio circa l'applicazione della
legge, e' un conformare la coscienza alla "verita' oggettiva". E la verita' oggettiva e' la
voce della chiesa ufficiale. "La risposta della Chiesa alla domanda dell'uomo ha la
saggezza e la potenza di Cristo crocefisso, la verita' che si dona". La Veritatis
splendor e' un documento scritto con il proposito di mettere in riga la teologia
morale. La Chiesa afferma di mettersi al servizio della coscienza non tanto per
formarla nel senso che ognuno deve scoprirla nel suo cammino, ma servizio della
coscienza aiutandola a non essere portata qua o la' da qualsiasi "vento di dottrina", a
non sviarsi dalla verita' circa il bene dell'uomo, ma specialmente nelle situazioni piu'
difficili a raggiungere con sicurezza la verita' e a rimanere in essa. La coscienza si
svuota di senso e diventa un qualcosa che mi aiuta a capire quello che altri hanno
gia' deciso.
Ora il problema e' che non sempre le verita' sono cosi' assolute e che per
verita' assolute nella Chiesa si intendono anche cose che sono cambiate con il
tempo, modi di vedere variabili nelle diverse culture. Il relativismo viene assimilato
al pluralismo. Questo e' il grande terrore: che il pluralismo nel quale viviamo porti
inevitabilmente a relativizzare tutto. Ed in questa ottica viene ridotta anche
l'importanza di quella che Haring chiama la reciprocita' delle coscienze. Dal
confronto puo' nascere una critica, una discussione sull'Autorita'. Quindi l'altro
richiamo e' il confronto tra la coscienza e l'Autorita'; l'appartenenza quanto mi puo'
imbrigliare o quanto mi libera, e se possibile che tipo di appartenenza mi aiuta a
crescere o mi blocca nel mio cammino? Ma qui si sconfina nell'argomento che alla
fine del nostro laboratorio teologico trattera' Martino.
Quelli che ho indicato sono soltanto degli spunti a mio parere interessanti per
renderci conto di quanto il tema della coscienza sia complesso e forse inafferrabile
come solo concetto.
. - OBIEZIONE DI COSCIENZA: ECCEZIONE O STILE DI VITA?
Introduce: Andrea Valdambrini (20/10/95)
La domanda che da' il titolo all'incontro contiene gia' la risposta. Se l'obiezione
di coscienza e' sincera, se nasce da una maturazione personale, non puo' certo ridursi
ad un episodio, ad un momento significativo ma isolato da una vita vissuta secondo
coscienza.
Cio' non toglie che l'obiezione di coscienza sia ancora sentita, addirittura tra gli
stessi obiettori, come nel caso del servizio militare, come un momento che si
esaurisce con lo svolgimento del servizio civile. Si sente dire spesso, ed e' capitato
anche a me di dirlo: "Ho fatto l'obiettore alla Caritas...", come se essere obiettore di
coscienza e fare il servizio civile fossero sinonimi. Si arrabbierebbero sicuramente
gli anarchici, che rifiutano qualsiasi forma di coscrizione, civile o militare.
Ma, a regola, si dovrebbe arrabbiare qualunque obiettore di coscienza. Dire "ho
fatto l'obiettore" e' sintomatico di un sentire l'obiezione come un fatto legato ad un
periodo, ad un momento, appunto l'anno di servizio alla patria. Una concezione
inaccettabile per chi ha pagato la propria scelta con anni di carcere.
Ma e' opportuno iniziare guardando in quali forme si e' concretizzata
un'obiezione di coscienza:
Quando parliamo di obiezione di coscienza viene subito in mente quella al
servizio militare (riconosciuto in parte da una legge dello stato, la 772 del
15/12/1972). In realta' la legge 772 fa riferimento solo all'obiezione di coscienza
all'uso delle armi, ma cio' che l'obiettore rifiuta e' ovviamente tutta l'istituzione
militare; il fine dell'obiettore di coscienza non e' non partecipare alla guerra, ma far
cessare tutte le guerre.
Riguardo al riconoscimento ed alla tutela da parte dello stato dell'obiezione di
coscienza, che non riguarda solo quella al servizio militare, e' forse inutile ricordare
che esso non ha niente a che vedere con la sincerita' dell'obiezione. Basta ricorda
che la 772 condanna ad una pena da 2 a 4 anni chi, non riconosciuto obiettore
dall'apposita commissione, persiste nel rifiuto di prestare il servizio militare (art. 8).
Ma e' alla rovescia! Lo stesso rifiuto di svolgere il servizio militare nonostante cio'
non sia consentito dalla legge e' la dimostrazione piu' ovvia della sincerita' di tale
obiezione.
Si potrebbe forse anche dire che la tutela dell'obiezione tramite una legge dello
stato faccia venir meno un carattere essenziale dell'obiezione di coscienza, cioe' il
rifiuto di obbedire ad una legge ritenuta ingiusta; se e' lecito non seguire una norma
non c'e' piu' "obiezione", ma "scelta" secondo coscienza. A dimostrazione di cio'
basta guardare il numero degli obiettori prima e dopo la legge del 1972, passati da
poche decine alle attuali decine di migliaia. Non c'e' dubbio che la legge abbia tolto
tensione alla scelta di obiettare.
Tra gli obiettori di coscienza al servizio militare si distinguono quelli che
scelgono l'obiezione totale, contrari a qualunque forma di coscrizione. E' il caso
tipico degli anarchici, che lo definiscono "approccio della non sottomissione". Gli
anarchici contestano allo Stato il potere di imporre un servizio di leva (civile o
militare) ai cittadini.
Diverso e' il caso dei Testimoni di Geova, che accettano di compiere un servizio
per il paese, ma si rifiutano un servizio civile che sia gestito dal Ministero della
Difesa e dall'apparato militare. La loro motivazione e' puramente religiosa, il loro
intento non e' una presa di coscienza collettiva o l'abolizione dell'esercito.
Nel memoriale di un testimone di Geova obiettore di coscienza possiamo
leggere: "Come posso io che gia' sono soldato di Cristo e sostenitore del regno di
Dio, per il quale ho gia' dedicato e dedico tutte le mie energie fisiche e mentali,
mettermi al servizio di una nazione fino a dedicare ad essa le stesse cose che, come
cristiano, sono tenuto a rendere a Dio, ed in particolare la vita? Con tutto cio' non
sono antimilitarista, non combatto le presenti istituzioni militari e non ostacolo i
programmi militari di alcuna nazione. Le nazioni sono libere di avere o non avere
un esercito ed ogni persona e' libera di servire in esso senza che io la censuri.
Chiedo soltanto che, con uguale rispetto della libera scelta, venga tollerata la mia
posizione di neutralita'." (1954).
Ci sono ovviamente altre espressioni di obiezione di coscienza, meno conosciute
e meno sviluppate dell'obiezione al servizio militare, ma comunque significative.
Alcuni esempi sono:
- Obiezione fiscale alle spese militari
L'obiettore fiscale detrae dalle tasse da
pagare quella percentuale che viene destinata dallo stato alle spese militari (circa il
5,5%), versando ugualmente la quota su un Fondo per la Pace ed offerta allo Stato
(che la rifiuta sistematicamente) affinche' venga utilizzata per iniziative nonviolente.
L'obiezione fiscale e' un reato amministrativo per cui sono previste pene che
arrivano al pignoramento di beni. Gli obiettori fiscali sono disposti a contribuire
economicamente alla difesa dello Stato, ma ritengono piu' corretto lasciare al
cittadino la scelta di sovvenzionare una forma di difesa militare o, in alternativa, di
finanziare progetti di difesa popolare nonviolenta.
- Obiezione di coscienza sul luogo di lavoro
in genere industrie che producono o
commerciano materiale bellico o imprese con gravi impatti ambientali. Qui la
sanzione e' evidente; si perde un'opportunita' di lavoro.
- Obiezione di coscienza del personale medico e paramedico sull'aborto
anch'esso riconosciuto da una legge dello stato.
Un caso particolare di obiezione di coscienza sull'aborto fu quello di Baldovino I, re
del Belgio e quindi capo di stato (laico). Baldovino I si rifiuto' di firmare la legge
che regolamentava l'aborto approvata dal Parlamento belga. Per superare l'impasse
fu trovato lo stratagemma di un'autosospensione temporanea dalla massima carica
dello stato, per il tempo necessario che la legge entrasse in vigore senza la sua
firma.
- Obiezione di coscienza di medici e studenti universitari alla vivisezione
anch'essa tutelata dalla legge.
Da questi esempi possiamo gia' individuare il carattere specifico dell'obiezione di
coscienza: l'obiettore si rifiuta di violare un diritto altrui (diritto alla pace degli altri
popoli, diritto alla vita del feto, diritto ad un ambiente vivibile da parte di tutti).
Quindi l'obiezione di coscienza di coscienza, anche se e' necessariamente un'azione
individuale, non e' certo un'azione individualista. L'obiezione di coscienza e' un
atteggiamento nonviolento, verso gli altri uomini, verso il feto, verso l'ambiente.
Questo ci libera da tutti coloro che invocano la coscienza per interessi personali
(come il famoso cannibale), o che giustificano violenze con l'alibi del rispetto delle
culture (mutilazioni sessuali alle donne, come la pratica dell'infibulazione). Siamo
evidentemente dalla parte opposta di un comportamento nonviolento. Se il mio
atteggiamento e' violento, non lo posso chiedere alle mie idee, alla mia cultura, alla
morale comune, alle dichiarazioni dei diritti umani; devo essere sensibile a quello
che l'altro sente come violenza.
Altro carattere specifico dell'obiezione di coscienza e' la sua inderogabilita'. La
coscienza non da' scelta, per essere coerenti non si puo' che obiettare. Lo scrisse in
un articolo del 1963 anche Balducci: "Un cattolico in caso di guerra totale ha, non
dico il diritto, ma il dovere di disertare". Per questo articolo Balducci fu denunciato
e condannato a 8 mesi di reclusione.
L'altro carattere specifico dell'obiezione di coscienza, lo abbiamo gia' accennato,
e' il "rifiuto", implicito nel termine "obiezione". L'obiezione, nella sua accezione
negativa, e' un atto di volonta' di opporsi ad un fatto ingiusto, spesso imposto o
garantito da una legge dello stato (imposto come il servizio militare o le tasse,
garantito come l'aborto o il traffico di armi). Si concretizza quindi in un contrasto
tra la coscienza individuale e una legge dello stato (e questo puo' succedere con una
certa frequenza nella maggioranza delle persone), contrasto che pero' in questo caso
diventa insanabile, o perlomeno cosi' e' "sentito", e portare ad un rifiuto categorico
di obbedire alla legge.
Ma quando e' giusto porre la coscienza sopra la legge dello stato?
Il principio dell'obbedienza alle leggi dello stato e quindi della supremazia di
queste rispetto alla coscienza individuale sembra essere scontato in tutti i sistemi
giuridici degli stati moderni. Invece abbiamo un caso storico molto importante in
cui questo principio e' stato rovesciato. Il Tribunale Internazionale di Norimberga,
nel famoso processo del dopoguerra contro i criminali di guerra nazisti, arrivo' ad
una sentenza di condanna non riconoscendo il principio invocato dagli ufficiali
nazisti per il quale loro avevano solamente obbedito a degli ordini, e stabilendo
invece che essi avrebbero dovuto rifiutarsi di obbedire ad un ordine di un superiore
quando esso fosse stato ingiusto e crudele. Ovviamente solo la propria coscienza
poteva dire quali ordini fosse palesemente ingiusti e crudeli.
Il contrasto tra coscienza e legge ha avuto spesso, fin dall'antichita', un carattere
religioso: obbedienza alle leggi dello stato e obbedienza a Dio. Cosi' si giustificava
il primo obiettore di coscienza cristiano al servizio militare, Massimiliano, nel 295,
di fronte al proconsole Dione: "A me non e' lecito prestare il servizio militare, dato
che sono cristiano". Proconsole: "Fa' il militare se non vuoi morire". Massimiliano:
"Non faccio il soldato. Tagliami pure la testa, io non faccio il soldato per questo
mondo, ma servo il mio Dio". Proconsole: "Chi ti ha messo queste idee in testa?".
Massimiliano: "La mia coscienza e colui che mi ha chiamato". Massimiliano fu
decapitato.
Il conflitto tra cristianesimo e stato riguardo all'esercito fu presto risolto con
l'editto di Costantino (Milano, 313); Cambia ovviamente anche la teologia con la
teoria della guerra giusta di S. Agostino.
Al riguardo e' successo un fatto curioso in Polonia: la Corte Suprema Polacca,
recentemente, ha confermato un'ordinanza rifiutando le rivendicazioni di un
obiettore pacifista, poiche' era di religione cattolico-romana. La Corte ha stabilito
che la fede cattolica non e' una fede pacifista, in quanto ammette la teoria della
guerra giusta: quindi chiunque professi tale religione non puo' essere pacifista.
La reazione della chiesa cattolica ai primi casi di obiezione di coscienza in Italia
e' significativa del concetto di coscienza concepito allora. Nel 1948 obietto' al
servizio militare Pietro Pinna, non legato ad alcuna chiesa. Con il suo gesto
l'obiezione di coscienza divenne un caso nazionale, anche se fu preceduto da casi di
obiezione di pentecostali e testimoni di Geova.
Un articolo apparso su "La Civilta' Cattolica" cosi' valutava il gesto di Pinna: "i
giudici che hanno condannato il giovane Pinna a due anni di reclusione come
renitente alla leva, hanno compiuto il loro dovere (...). La pericolosita' del
soggettivismo, che con essa si intende rendere legale, si puo' gia' vedere in atto nel
rifiuto degli operai di qualche industria bellica di lavorare alla produzione delle
armi e nel minacciato sciopero dei portuali, per non scaricare le armi inviate
dall'America ai Paesi occidentali aderenti al Patto Atlantico. Ecco un'altra obiezione
di coscienza, non piu' individuale come quella del Pinna, ma collettiva, la quale
sarebbe perfettamente legittima, se fosse legittima l'altra di cui abbiamo fatta
parola."
Un altro articolo rincarava la dose: "Se il diritto si accompagna solamente alla
verita' e al bene, non si possono scorgere o riconoscere diritti dove la verita' e il
bene non esistono". "Se si avverasse il caso che un individuo abbia la coscienza
soggettiva certa e imperturbata di poter far banchetto con le carni del suo prossimo
e a questa coscienza si accompagnasse il diritto di farsi valere nella vita sociale,
come viene affermato, si dovrebbe lasciargli piena liberta' d'azione e l'autorita'
pubblica commetterebbe un delitto intervenendo. (...) Noi vorremmo domandare ai
sostenitori dei diritti della coscienza soggettiva che cosa risponderebbero a un
amico, che si presentasse a casa loro e li invitasse ad uscire, perche' ha la certezza
soggettiva che quella casa gli appartenga."
Un altro caso significativo della cultura di allora fu il telegramma inviato dal
Ministro della Difesa Giulio Andreotti al sindaco di Firenze La Pira dopo che
questi, nel 1961, decise di far proiettare il film "Non uccidere" del regista francese
Claude Autant-Lara, dedicato all'obiezione di coscienza e vietato dalla censura
italiana. Il telegramma concludeva: "non so dove andremo a finire mettendoci al di
sopra della legge e della morale comune". Per questa azione La Pira subi' anche
un'azione giudiziaria.
Il Concilio comunque apri' uno spiraglio agli obiettori. Nello Gaudium et spes
(n. 79) si afferma infatti che "Sembra inoltre conforme ad equita' che le leggi
provvedano umanamente al caso di coloro che, per motivi di coscienza, ricusano
l'uso delle armi, mentre tuttavia accettano qualche altra forma di servizio della
comunita' umana". Dopo il concilio il numero di credenti cattolici dichiaratisi
obiettori di coscienza e' cresciuto continuamente, fino a rappresentare oggi una delle
forze piu' vive nel campo della pace.
Anche Capitini, estraneo a qualsiasi chiesa o religione istituzionalizzato, imposta
il discorso sottolineando il carattere trascendente, e quindi religioso, dell'obiezione
di coscienza, togliendole un carattere puramente occasionale: "I due aspetti
dell'obiezione di coscienza sono: quello legale (arrivare ad una legge che riconosca
l'obiezione di coscienza); quello piu' propriamente morale e religioso (iniziare
coerentemente un atteggiamento dell'animo diverso da quello di fare la guerra,
dell'armarsi, dell'uccidere)." (1950).
Per concludere:
Se l'obiezione di coscienza e' veramente una scelta di coerenza e di fedelta' con
quello che nel nostro intimo sentiamo, in un determinato momento del nostro
cammino di maturazione nella vita, come assoluto ed inderogabile, sia esso Dio o
un valore, non e' pensabile una sua frammentazione. Il valore della vita, se inteso
come assoluto, inderogabile, non puo' avere ne' scadenze (l'anno di servizio civile si',
prima e dopo no), ne' luoghi esclusivi (in ospedale si', fuori no), ne' mondi
privilegiati (la vita umana si', l'ambiente in cui vivo no; oppure, viceversa, la
balenottera azzurra si', il contadino brasiliano no).
Essendo una scelta di coerenza e fedelta', non puo' che essere estremamente
impegnativo. Serve il coraggio di camminare da soli, di essere minoranza, di andare
contro la morale comune, di accettare una condanna affinche' un giorno quella scelta
diventi un diritto. Don Milani, parlando degli obiettori di coscienza, cosi' rispose ai
cappellani militari che bollarono gli obiettori come vili: "La sentenza umana che li
ha condannati dice solo che hanno disobbedito alla legge degli uomini, non che
sono vili...Aspettate ad insultarli. Domani forse scoprirete che sono dei profeti.
Certo il luogo dei profeti e' la prigione, ma non e' bello star dalla parte di chi ce li
tiene".
A questo punto possiamo togliere l'obiezione di coscienza dalla sua accezione
negativa di rifiuto di qualcosa, sia pure ingiusto. Un comportamento nonviolento
non e' mai passivo, solo rifiuto, ma e' sempre un atteggiamento propositivo. Capitini
affermava nel 1949: "L'obiezione di coscienza non e' un atto negativo, ma
affermativo di un valore, di una visione ideale, fondazione di un rapporto
spirituale".
Allora dire no al sistema militare, al suo esercito, alla sua obbedienza cieca, alla
sua guerra giusta, in realta' e' un dire si' alla convivenza tra i popoli, tutti fratelli, e'
dire si' all'obbedienza alla propria coscienza ed alla responsabilita' verso gli altri, e'
dire si' ad un uso attento del nostro denaro e dire si' ai sistemi di credito alternativo
che non usano i nostri soldi per strangolare i popoli del sud con il debito
internazionale o per finanziare loschi trafficanti di armi, e' dire si' alla Difesa
Popolare Nonviolenta come alternativa democratica e non violenta all'esercito, e'
dire si' alla disobbedienza civile, allo sciopero e a tutte le altre forme di lotta
nonviolenta.
Dire no all'aborto e' un dire si' alla vita che nasce ed alla vita che e' nata, e' dire
si' ad una vita dignitosa, libera dalla poverta', dalle ingiustizie e dagli sfruttamenti, e'
dire si' ad una legge che sconfigga l'aborto clandestino, ma soprattutto che educhi a
rapporti sani e ad una paternita' e maternita' responsabile, sia verso il futuro figlio
che verso tutto il resto del mondo gia' sovrappopolato, e' dire si' alla vita
dell'innocente ma anche a quella del condannato a morte da una giustizia che
abbandona gli ultimi invece di recuperarli.
Dire no alle fabbriche ed alle pratiche che distruggono il nostro ambiente, e
quindi noi stessi, e' dire si' ad un pianeta in equilibrio, e' dire si' alle generazioni che
verranno dopo di noi e che ci hanno, incautamente, lasciato in gestione l'ambiente
in cui dovranno vivere, e' dire si' ai popoli del sud che si vedono derubati le risorse
alimentari per ricevere in cambio i nostri rifiuti tossici, e' dire si' al commercio equo
e solidale, perche' non di carita' hanno bisogno i popoli del sud, ma di giustizia.
E' evidente che per un programma del genere non basta una vita!
Introduce: Martino Morganti (27/10/95)
Tra coscienza ed appartenenza si intravede facilmente una quasi inevitabile
convivenza ma convivenza con possibili, anzi probabili, frizioni. Anche il
linguaggio manda avvertenze piuttosto chiare.
Con-scienza dice attivita' di conoscenza, di consapevolezza. Con particolare
riferimento (il vocabolario non e' insensibile a filosofia, teologia, psicologia ecc.) a
se stessi come complesso di potenzialita', volonta', giudizi, sentimenti. Coscienza, in
definitiva, come responsabilita'; fedelta' a se stessi; diritti-doveri inalienabili; l'io
profondo e piu' esigente...
Appartenenza, invece, rimanda ad un collettivo (famiglia, lingua, cultura,
religione...) nel quale l'individuo si colloca ma al quale l'individuo e' anche vincolato
(ad e pertinere, cioe' "appartenere a" o "essere proprieta' di").
Insomma quasi due poli opposti: uno con attrazione sul singolo e la sua
singolarita'; l'altro calamitante alla conformita' nell'insieme.
Gibran scompone questa associazione tra coscienza ed appartenenze e prospetta
la coscienza come luogo dell'unica vera appartenenza: "Credo che vi siano al mondo
gruppi di persone e individui che sono affini indipendentemente dalla razza.
Dimorano nello stesso regno della coscienza. E' questa la parentela, semplicemente
questa" (Le parole dette, Paoline, Milano 1994, p. 48).
Facile cogliere echi o assonanze con Gesu' di Nazareth: "Mia madre e i miei
fratelli sono quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica" (Lc. 8,
21).
Dunque: coscienza ed appartenenze. Con particolare attenzione - e spazio - alle
appartenenze religiose.
Segno alcuni passaggi. Senza pretese. Soltanto qualche considerazione, magari
intorno all'ovvio, ma di uno che non vorrebbe svendere o lasciare appiattire quanto
- e non come eccezione ma come regola - gli e' stato dato in esclusiva e in esclusiva
gli viene richiesto.
I. APPARTENENZA RICEVUTA OSSIA COSCIENZA MUTUATA
1. Il noi precede l'io. Chi nasce trova e riceve appartenenze. Soltanto le
burocrazie possono registrare apolidi o figli di nessuno. Tutti hanno dei genitori e,
quindi, una parentela e una terra (nazione, etnia...), una cultura, una lingua, una
religione, una condizione sociale, una collocazione politica se non partitica.
Appartenenze, potremmo dire, genetiche.
Se si vuole con qualche margine di casualita'. Uno dei ragazzi di Arzano dice
molto pur scadendo in sbrigativa semplificazione: "Se Maometto non nasceva cosi'
in ritardo adesso era lui il nostro Dio" (Dio ci ha creato gratis, Mondadori, Milano
1992, p. 139).
Ma, comunque, appartenenze che scendono e rimangono nella nostra profondita'.
Gandhi dice cio' che debbono, in qualche modo, sottoscrivere anche coloro che
vorrebbero avere altra appartenenza da quella capitategli: "Se sono un induista, non
posso cessare di esserlo nemmeno se tutta la popolazione induista mi disconoscesse"
(Il mio credo, il mio pensiero, Newton 1992, p. 137).
2. Le appartenenze ci generano. Non a caso si dice "madre lingua", "madre
patria" e simili. Tante maternita', le appartenenze, che confluiscono nella madre (e
nel padre!) e ci danno, insieme all'esistenza fisica, l'esistenza delle conoscenze, delle
convinzioni, delle valutazioni, delle distinzioni tra il bene e il male, tra il giusto e
l'ingiusto. Insomma: le appartenenze generano, fanno, determinano cio' che sta, o
puo' stare, sotto il nome di coscienza.
Con variazioni, piu' accentuate dei diversi colori della pelle, a seconda delle aree
geografiche.
Il teologo ortodosso Olivier Clement ne abbozza - sia pure calcando su
espressioni estreme - una mappa:
"Bisogna ricordare che l'infanticidio delle femmine risulta "naturale" in estremo
oriente, come pure, nell'antica India, il rogo delle vedove; che la poligamia e'
"naturale" per un musulmano (il Corano si accontenta di limitarla), cosi' come lo era
la poliandria per un tibetano (un metodo astuto, per la verita', della limitazione delle
nascite!); che il ludus, periodo di liberta' sessuale intermedio tra la puberta' e il
matrimonio, era del tutto "naturale" per gli antichi romani ed e' ritornato tale oggi
per gli occidentali, ecc." (Il Regno 1995, 15; p. 490).
Chi suggerisce di parlare di coscienza al plurale (coscienze) coglie questa
immersione della coscienza nel plurale nel quale inevitabilmente si colloca: lingue;
culture; religioni; etnie...Appartenenze.
Tutti soggetti a diverse appartenenze che ci formano, ci immettono in un
processo di modellamento che ci raggiunge fino alle radici. Fino, appunto, alla
coscienza che - lo registrano i dotti trattati di morali - e' soggetta ad essere
"formata" o "deformata". Modellamento in facile attivita' nei confronti dei bambini.
Ma - non va trascurato - sottilmente operante anche negli adulti, nei quali rimane
dentro un po' come rimangono i sapori dell'infanzia con il loro carico di suggestioni
e anche di complicate soggezioni.
II. APPARTENENZA COMODA, OSSIA COSCIENZA FRENATA
1. Si': suggestioni e soggezioni. L'appartenenza e' comoda e calda come il ventre
materno. E, come il ventre materno, fascia la dipendenza con un abbraccio
protettivo. Abbandonarla, scindere il cordone ombelicale, e' come gettarsi nel nulla.
L'appartenenza impedisce all'io l'isolamento e la solitudine e da' all'io
amplificazioni di spessore e di peso (siamo molti, siamo forti...); di tempo e di
spazio (una storia, una presenza significativa tra gli altri...). Prendere le distanze
dall'appartenenza, porsi in conflitto con l'appartenenza e' operazione complicata
proprio per questi intrecci, queste intense e profonde connessioni. E' difficile dire no
o dissentire da noi stessi e l'appartenenza, oltre che "possederci", ci "appartiene", e'
qualcosa di noi stessi, si miscela con affinita', amicizie, affetti, tradizioni, costumi,
mentalita', familiarita'.
Jack Frusciante e' uscito dal gruppo (Mondadori) ma aiutato dalla fantasia e
dalla penna di Enrico Brizzi.
I personaggi della realta' - noi! - dal gruppo escono con qualche, realissima,
difficolta' in piu'!
"Ci si e' sovente domandato - annota il filosofo Jean Brun - come mai individui
che hanno il senso dell'argomentazione lucida nelle loro esperienze di laboratorio e
sono capaci di condurre a termine un lavoro intellettuale..., che richiede una
competenza specialistica e controllabile, possano dare prova di un infantilismo
totale, di una recettivita' da debole di mente, di un rifiuto quasi deliberato di ogni
riflessione, al momento in cui decidono di impegnarsi in un partito politico, che
impone loro slogan, riflessi, certezze a buon mercato, che trasforma le menzogne in
verita' indiscutibili, che giustifica ogni voltafaccia, che nega l'evidenza e li rende
sordi ad ogni messa in guardia, ad ogni prova irrefutabile" (La nudita' umana, SEI,
Torino 1995, p. 19).
Difficile uscire dalle suggestioni e soggezioni delle appartenenze. Anche perche'
le appartenenze hanno grande capacita' di difesa. Sanno difendersi offendendo senza
mezze misure chiunque osi intaccarne o metterne in discussione la solidita' e
l'insindacabilita'. Ogni dissenso diventa tradimento, diserzione, apostasia, eresia o
affini. Ogni difformita' e' trasgressione, disobbedienza, insubordinazione, anarchia,
stranezza o pazzia. E questo, merita sottolinearlo, non soltanto per decreto dei
palazzi ma anche per diffuse e non gentili capacita' di scomunica da parte dei vicini
di casa, dei benpensanti!
2. Il tutto, mi sembra, conduce a dedurre che l'appartenenza oltre ad avere
qualcosa, o molto, a che fare con la "generazione" della coscienza, ha sulla
coscienza un ruolo a lungo percorso: quello di frenarla, di zavorrarne il volo, di
impacciarne il processo di indipendenza e autonomia. Appunto perche' e' difficile ad
ogni eta' abbandonare "il calore del gregge" (J. Brun) e affrontare "il gelido soffio
del vivere solo" (Nietzsche).
"Ci sono prigioni con barriere, ma ce ne sono piu' raffinate da cui e' difficile
fuggire, perche' non si ha la consapevolezza di essere prigionieri. Ci sono le prigioni
dei nostri automatismi culturali" (Henri Laborit nella presentazione di La
comunicazione ecologica, di Jerome Liis, La Meridiana, Molfetta 1993, p. 7).
E' opportuno prenderne atto. Per trovare supplementi di responsabilizzazione.
Anche per essere generosi in indulgenza.
Indulgenza. Scarsa per chi subisce e si uniforma senza dare segni di vita propria
e in proprio.
Indulgenza. Avara per chi riserva il dissenso alla mormorazione sussurrata ma e'
ben attento ad ostentare pubblici consensi.
Indulgenza. Generosa per chi adotta liberta' di pensiero e di comportamento pur
concedendosi gradualita' e calcolate limature nel proprio intervento o atteggiamento
critico. Non si puo' pretendere tutto e subito anche a costo di forzature sul grado di
coscienza personale o di gruppo o annullando cautele e opportunita' indicate -
appunto - dalle delicate dinamiche delle appartenenze.
Trovo troppo severo, ad esempio, questo giudizio dell'amico Giulio Girardi:
"La fragilita' dei movimenti del passato (movimenti dal basso) e' stata quella di
non capire che si doveva disobbedire [...]; non c'e' bisogno che la nostra scelta e la
nostra fedelta' al vangelo abbaino un riconoscimento dall'alto; quel che conta e' la
nostra coerenza delle nostre scelte" (Tempi di Fraternita', 1995, 6, p. 13).
Certo e' diritto - dovere - di tutti neutralizzare questa specie di legge di gravita'
costituita dalla forza suadente dell'appartenenza.
Aiutano alcuni riferimenti.
Abramo che lascia la sua terra proprio per non sradicarsi da se stesso (gli
uomini non sono alberi che si radicano se si fissano al suolo; gli uomini non sono
piante, cioe' non sono piantati). Francesco di Assisi che si "spoglia"
dell'appartenenza paterna per appartenere solo alla propria chiamata.
Particolarissimamente Gesu' di Nazareth, "ebreo per sempre" ma, quasi
sistematicamente, con licenza di essere ebreo trasgressivo.
Pochi nomi. I soliti. Ma perche' ciascuno si lasci contagiare dai tanti che - noti o
sconosciuti - hanno saputi dire dei "no" sofferti e scomodi alle loro appartenenze
perche' hanno voluto dire "si'" alla loro coscienza.
III. APPARTENENZA RELIGIOSA, CIOE' COSCIENZA VINCOLATA?
1. E' un'appartenenza singolarissima. Semplificando al massimo: singolarissima
per vastita' e profondita'.
a) Vastita'. L'appartenenza religiosa ha un'irrefrenabile tendenza a sconfinare dal
proprio specifico ed insediarsi in altre appartenenze. Praticamente in tutte le
appartenenze. In nome del primato dello spirituale e dello spirituale dovunque.
L'intreccio e' spesso sottile, impalpabile eppure sempre importante se non decisivo:
il religioso nella famiglia, nella scuola; negli usi e costumi e nella concezione della
vita; nel governo degli stati, nelle nazionalita' e nelle etnie. Questi ultimi, e' inutile
insistervi, propongono questi complicati intrecci di sacro e profano in tragiche
evidenze. Appartenenza religiosa intrecciata con tutte (o quasi) le appartenenze:
aggiungendo robusti supplementi di forza (di presa sul singolo o gruppi intermedi)
alla forza propria di ogni appartenenza. Tanto e soltanto per esemplificare: la patria
e' la patria, ma la patria cattolica e' ancora di piu'!
b) Profondita'. L'appartenenza religiosa non ha livelli limite (fin qui, ma non
oltre). Arriva oltre tutte le appartenenze. Anche oltre quelle del sangue, della
parentela. Anche oltre quella degli affetti stretti. Certamente oltre le registrazioni
anagrafiche e gli stessi vincoli sociali.
Giunge nel profondo piu' profondo dell'uomo/donna: proprio dove si gioca e si
decide l'uomo/donna nella sua qualita' (buono o cattivo) e nel suo destino
(specialmente quello eterno).
Quindi - e va sottolineato - li' dove si decide l'indipendenza come la dipendenza
dell'uomo/donna. Favorendo la prima (indipendenza) o la seconda (dipendenza)?
Sostenendo, animando, illuminando - si afferma - la liberta' e la vera autonomia
come soltanto puo' fare la verita' delle quali le religioni sono depositarie. Vincolando
- si risponde - a dogmi e norme che lasciano scarsi margini a valutazioni e scelte di
responsabilita' personale.
Appartenenza profondissima e quindi totale. E anche senza appello in quanto si
identifica, in qualche modo, con la corte suprema, quella del giudizio divino. In
tutte le altre appartenenze vige il "meglio obbedire a Dio che agli uomini" (Atti, 4,
19); qui sembrerebbe di no perche' qui gli uomini che decidono e giudicano
ritengono di essere portavoce di Dio stesso.
2. In definitiva quella religiosa e' l'unica appartenenza che attinge la coscienza;
che quasi fa tutt'uno con la coscienza, che e' affare religioso, delle religioni, come le
religioni sostengono, spesso con il benestare, o scarse resistenze, nel pensiero laico.
In osservazione rapida, la coscienza e il cattolicesimo espresso, nel caso, da
Giovanni Paolo II. Un suo passaggio significativo: "Nessuna autorita' umana ha il
diritto di intervenire nella coscienza di nessuno. La coscienza e' testimone della
trascendenza della persona, anche di fronte alla societa', e in quanto tale e'
inviolabile... Negare ad una persona la piena liberta' di coscienza, in particolare la
liberta' di cercare la priorita' va contro il suo diritto piu' intimo".
Un'ottima apologia della coscienza. Ma non finisce qui. Arriva una riserva.
Segue nello stesso intervento papale (messaggio per la Giornata della Pace, 1
gennaio 1991): "La coscienza, tuttavia, non e' un assoluto che si librererebbe al di
sopra della verita' e dell'errore; al contrario la sua intima natura suppone un rapporto
con la verita' oggettiva, universale e uguale per tutti, che tutti possono e debbono
ricercare".
Insomma: un si' convinto alla coscienza; un'avvertenza che nessuno puo'
contestare: la coscienza non e' un assoluto, un'istanza slegata (ab-soluta) da ogni
riferimento al di fuori di se'; chiusura con il ricorso alla "verita' oggettiva".
E' comunque qualcosa che l'individuo puo' conoscere soltanto con l'aiuto di una
guida, cioe' il magistero ecclesiastico.
Chiara la conseguenza: "Dal momento che - sono ancora parole di Giovanni
Paolo II - il magistero della Chiesa e' stato istituito da Cristo Signore per illuminare
le coscienze, rifarsi alla coscienza per contestare la verita' di cio' che il magistero ha
insegnato significa rifiutare la concezione cattolica, riguardo sia la coscienza morale
che il magistero. Parlare di dignita' intangibile della coscienza, senza altre
chiarificazioni, espone al rischio di gravi errori" (discorso nel XX anniversario
dell'Humanae vitae. Rimando a P. Valadier, Elogio della coscienza, SEI. 1995. pp.
7-8; 18-24).
Insomma: la coscienza e' inviolabile ma non rispetto alla verita' oggettiva e cioe'
rispetto al magistero ecclesiastico.
I moltissimi che trovano contraddittorio il Papa predicatore vigoroso e
intransigente della liberta' di coscienza all'esterno della Chiesa (nei confronti degli
stati ecc.) rispetto al Papa normalizzatore di ogni presa di coscienza all'interno della
Chiesa, evidentemente misurano le contraddizioni con la logica dei mortali e non
con la logica superiore della Chiesa cattolica (ma solo di essa?).
3. I cattolici (ma - insisto - soltanto i cattolici?) debbono essere coraggiosi
obiettori fuori della Chiesa (delle chiese, delle religioni?), ma rigorosamente
allineati, obbedienti, consenzienti all'interno della Chiesa (delle chiese, delle
religioni?).
a) Eppure anche nella Chiesa i cattolici osano (ed hanno osato) obiettare.
Con coraggio proporzionato all'intensita' unica della forza dell'appartenenza
religiosa. E pagano (ed hanno pagato) a caro prezzo questo loro non "dimettersi da
se stessi" (J. Brun).
Sarebbe giusto compilare un "martirologio" delle vittime nella e della Chiesa da
affiancare al "martirologio" canonico che registra soltanto le vittime dei nemici
della Chiesa. E non importa se si tratta di martiri incruenti: le mortificazioni
(emarginazioni, discrediti, condanne al silenzio ecc.) spesso fanno piu' male della
morte. E perche' non caldeggiare la "canonizzazione" di disobbedienti quando la
disobbedienza e' in nome della stessa fede che puo' animare l'obbedienza?
"L'obbedienza rispetta le leggi, l'amore sa quando infrangerle", sentenzia il maestro
in un convento osservato da A. De Mello (Un minuto di saggezza, Paoline 1987, p.
84).
b) I dissenzienti nella Chiesa non vorrebbero essere dissidenti dalla Chiesa.
Soltanto una Chiesa autocratica espelle invece di lasciarsi interrogare.
Per decenni e' stata usata la copertura politica: il "dissenso" nostrano (CdB in
prima linea) e di altre aree geografiche (teologia della liberazione su tutto) e' stato
sbrigativamente spedito oltre il "muro", nel luogo dei marxisti. Ma il "muro" e'
crollato ed ora e' meno facile delineare il dentro e il fuori. Anzi e' crollato uno dei
"muri"; l'ultimo.
"Negli ultimi cinquecento anni l'assolutismo monarchico dei pontefici e' stato
giustificato da una serie di "emergenze" che si sono successivamente esaurite: c'era
da combattere il diavolo protestante, poi il belzebu' laico e giacobino, infine il stana
comunista. Sparito il diavolo non ha piu' senso la legge marziale... La novita' e' che
comincia ad incrinarsi il consenso per un sistema del genere (accentramento del
potere) che per nessun teologo serio corrisponde - nell'attuale forma - alla volonta'
di Dio" (M. Politi, in La Repubblica, 4/10/95).
E le coscienze in obiezione crescono: In numero e peso: da semplici preti e frati
a vescovi (Gaillot non e' proprio unico in Europa, ed ha diversi "colleghi" altrove,
con punte di rilievo in America Latina); da illetterati a teologi e gruppi di teologi;
da manipoli parrocchiali a intere diocesi e diocesi di intere nazioni (Austria,
Germania, Francia, USA, Africa...). Ormai sono in molti a sottoscrivere con don
Milani che "l'obbedienza non e' piu' una virtu'". Nemmeno - si aggiunge - all'interno
della Chiesa (delle chiese, delle religioni).
Il panorama dei "disobbedienti" (una specie di Via dei Malcontenti!) e'
popolatissimo: preti operai, preti sposati, ricercatori scientifici, divorziati, donne,
omosessuali
c) Vorrei sottolineare come le appartenenze, compresa quella religiosa, non sono
delle astrazioni ma sono come lo fanno essere coloro che ne sono oggetto ma anche
soggetto. Ciascuno contribuisce a renderle inflessibili o malleabili, forti della forza
del consenso o docili alla persuasione delle libere scelte. Anche chi di coraggio
ritiene di averne poco o ritiene giusto e doveroso non esercitarlo nel delicato campo
religioso, dovrebbe sottrarsi almeno da due atteggiamenti sicuramente non nobili:
quello di contribuire a far alzare ad ogni occasione l'applausometro nei confronti
delle rigidita', delle inquisizioni e censure, delle normalizzazioni ecclesiastiche; e
quello di contribuire agli isolamenti, alle emarginazioni, alla denigrazione di chi
coraggio ce l'ha (o se lo da') e non lo mette in cassaforte.
Il tempo ci e' favorevole. L'intensificarsi di incontri e confronti con altre culture,
esperienze e religioni, dovrebbe aiutare tutti a limare i propri assoluti, a relativizzare
cio' che regge e vige nella propria appartenenza anche religiosa.
"L'incontro tra le culture e' sempre per l'etica un momento di prova. Non e'
difficile capirlo: la prima reazione alla novita' o/e alla minaccia sfocia nello scontro
violento e nella distruzione dell'avversario, in una specie di lotta mortale in cui la
posta in gioco e' la vita del gruppo. Ma se quella prima volta viene superata, allora
invitabilmente si intrecciano delle relazioni, e anche se ha trionfato sul nemico, e'
raro che il vincitore non resti in seguito affascinato da un certo numero di virtu', di
qualita' e di valori del barbaro, e non le adotti a sua volta... Il confronto con gli altri
fa scoprire che e' possibile vivere in modi diversi dal conformismo agli
insegnamenti della propria tradizione. Nasce subito la domanda: chi ha ragione? Il
bene e' tutto dalla nostra parte e il male tutto dalla parte del "barbaro"?" (P.
Valadier, op. cit., pp. 31-32 e ss.).
d) Meriterebbe dire qualcosa di piu' su coscienza e autorita' religiose. Quelle
religiose rientrano tra le non poche "autorita'" che la coscienza incontra insieme ai
genitori, agli educatori, ai modelli dei vari ambiti (politici, culturali e di costume).
Il loro compito dovrebbe essere quello di sollecitare la coscienza a stare all'altezza
della sua vocazione. Un loro rifiuto preconcetto in nome della coscienza contraddice
la coscienza stessa che non si fa sentire al di fuori di un contesto di relazioni.
Una loro accettazione supina toglierebbe alla coscienza senso e ragione d'essere.
Insomma: "Tapparsi le orecchie per non sentire delle autorita' significanti puo' essere
segno tanto di superficiale capriccio quanto di grande responsabilita'" (J. Fuchs).
E va notato come la richiesta di "obbedienza cieca" e la negazione del dibattito
contribuiscano - paradossalmente - a rimandare alla valutazione delle singole
coscienze.
"Una Chiesa strutturata gerarchicamente non solo non dispensa dal ricorso alla
coscienza, ma anzi la promuove. In primo luogo perche' l'obbedienza della fede
esige una personale e riflessiva appropriazione da parte del credente; ... In secondo
luogo perche' la ricchezza delle tradizioni morali cattoliche... offrono a ciascuno gli
elementi necessari per illuminare la sua decisione e per venire a delle conclusioni
coscientemente personali" (P. Valadier, op. cit., pp. 242-256).
IV. APPARTENENZA CIOE' ORDINE, COSCIENZA CIOE' DISORDINE?
E' un passaggio obbligato. Credo non ci siano dubbi: convince piu'
l'appartenenza della coscienza. Nel senso che l'appartenenza e' concreta, ben definita,
ben strutturata in leggi, consuetudini, tradizioni, storia, simboli, programmi, mentre
la coscienza indica qualcosa che se e' difficile (impossibile?) negare e' anche difficile
rendere tangibile e visibile e perfino descrivere o, meno ancora, definire. E nel tutto
il sospetto maggiore: che la coscienza finisca per essere un comodo alibi per
stravaganze individuali a scapito dell'ordine sociale. Indico appena qualcosa.
1. Ovvio che questo sospetto aiuti i gestori delle appartenenze. Chi detta le
regole del gioco e intende pilotarle ha tutto l'interesse a squalificare e screditare
ogni tentativo di canto fuori del coro. Ovvio che si governa meglio un popolo
passivamente obbediente e inquadrato. " (L.Bettazzi nella prefazione a La comunita'
dell'abate Franzoni, Roma, 1973, p. 7.).
L'ordine puo' mascherare il disordine (oppressioni, ingiustizie...). Chi denuncia
questo disordine mascherato giova all'ordine reale. Le esperienze totalitarie anche di
questo secolo hanno dovuto fare i conti con i cosiddetti "dissidenti". "Generale -
scriveva Adam Michinik dalla prigionia a Kiszczak ministro di Jaruzelski - si puo'
essere un potente ministro degli interni, avere alle spalle un potente impero che
domina dall'Elba a Vladivostok, sotto di se' tutta la polizia del paese, milioni di spie
e milioni di sloti per comprare pistole, cannoni, sistemi d'ascolto e informatori o
giornalisti rampanti, ma ecco uscire dall'ombra uno sconosciuto che vi dice: "Cio'
non lo farai". E' questo, la coscienza. " (Valadier, op. cit., p. 6).
2. La coscienza e' individuale ma non e' privata. Stralcio qualcosa da Valadier
(op. cit., pp. 260-262) "Nonostante la sua intima fragilita', nonostante l'irruzione in
essa dell'inconscio, nonostante i dubbi che la travagliano, nonostante i suoi
deragliamenti, la coscienza resta e deve restare un punto fondamentale di
riferimento. [...] (e non si tratta) di una virtu' del singolo, buona per l'orticello della
propria vita privata [...]; dalla sua scomparsa o dal suo sonno provengono i
malesseri, le tensioni e gli scandali della vita pubblica. [...] Al contrario, il suo
irrobustimento e la sua vitalita' sono necessari alle nostre democrazie; grazie ad una
coscienza salda, dei cittadini esigenti sono in grado di volere una vita comune ben
regolata e nutrita di ideali di giustizia e di solidarieta'. [...] Senza la coscienza la
democrazia si incrina; al posto della mutua considerazione subentra l'appello alla
forza pubblica e aumentano le richieste di maggior sicurezza perche' tutti
cominciano ad aver paura di tutti".
Gandhi e' certamente un costruttore di buona convivenza. Eppure Gandhi
obbediva soltanto alla propria coscienza: "Il piccolo tiranno che accetto a questo
mondo e' la "piccola ferma voce" interiore" (Il mio credo, il mio pensiero, Newton,
Roma 1992, p. 42).
3. Coscienza... tiranna. La coscienza e' piu' esigente e obbligante di ogni legge o
norma. Erich Fromm conferma: "L'analisi dimostra che la coscienza domina con
un'asprezza non minore di quella delle autorita' esterne, e inoltre che spesso il
contenuto degli ordini emanati dalla coscienza non e' in definitiva regolato da
esigenze dell'io individuale, ma da richieste sociali che hanno assunto la dignita' di
norme etiche. Il dominio della coscienza puo' essere anche piu' duro di quello delle
autorita' esterne, dato che l'individuo ne considera gli ordini come propri. Come puo'
ribellarsi contro se stesso?" (Fuga dalla liberta', Oscar Mondadori, 1994, pp. 135-
136).
4. Perche' le CdB prestano attenzione alla coscienza e non a cio' che sembrerebbe
loro piu' congeniale e cioe' alle esigenze comunitarie? Probabilmente perche' le CdB
non vogliono essere un insieme di persone ma persone insieme.
Francesco d'Assisi fa autorevole riferimento ad ogni disegno comunitario. E
Francesco vede come ideale di ogni fratello la somma di tutti gli altri fratelli. Come
dire che la comunita' serve a dare a ciascuno il meglio di tutti. O, se si vuole, che
ciascuno deve saper portare in comunita' il meglio di se stesso come dono a tutti gli
altri.
Dallo Specchio di perfezione (composizione fine '200 inizio '300 di
testimonianze scritte o orali di compagni di Francesco): "E diceva (Francesco) che
sarebbe un buon frate minore colui che riunisse in se' la vita e gli attitudini dei
seguenti santi frati: la fede di Bernardo, che l'ebbe perfetta insieme con l'amore per
la poverta'; la semplicita' e la purita' di Leone...; la cortesia di Angelo...; l'aspetto
attraente e il buon senso di Masseo, con il suo parlare bello e devoto; la mente
elevata nella contemplazione che ebbe Egidio; la virtuosa e incessante orazione di
Rufino...; la pazienza di Ginepro...; la robustezza fisica e spirituale di Giovanni
Delle Lodi; la carita' di Ruggero...; la santa inquietudine di Lucido, che, sempre
all'erta, quasi non voleva dimorare in un luogo piu' di un mese, ma quando vi si
stava affezionando, subito se ne allontanava..." (FF., 1782).
Nel capitolo XVI della regola non bollata (1221) Francesco da' la prevalenza
alla "ispirazione" rispetto all'obbedienza: il frate minore che chiede di andare "tra
gli infedeli" riduce il potere del superiore che non puo' che autenticarne la
"vocazione nella vocazione". Si veda F. De Beer in Concilium 1981, 9, p. 39.
CONCLUSIONE - APERTURA
Coscienza e appartenenza nascono insieme e, spesso, hanno difficolta' a vivere
d'amore e d'accordo. Tocca alla coscienza dover prendere le distanze. E non e'
operazione indolore. Meno ancora facile. Assomiglia, spesso, a David che osa
sfidare Golia. E, spesso, la sfida e' ancora piu' sproporzionata. Perche' capita di non
disporre nemmeno di una fionda mentre Golia non ha piu' un'individuazione precisa,
una visibilita' chiara, una precisa connotazione da antagonista.
Nei contesti attuali forse la coscienza non basta. Occorrono supplementi di coscienza.