Un convegno a Venezia

LA PACE INVECE DELLA GUERRA

La Fondazione "Venezia per la Ricerca sulla Pace" [1] è istituita sulla base della legge regionale veneta del 1988 sull'educazione alla pace, art. 10. Vi partecipa la Regione Veneto con altri enti locali e fondazioni. In collaborazione con l'Università dell'Ohio, la Fondazione ha organizzato a Venezia, l'1 e 2 ottobre 1999, il 1° convegno su Il ruolo delle Organizzazioni non Governative nelle emergenze umanitarie. [2]  La Fondazione si propone un convegno annuale di rassegna e collegamento tra i diversi centri e soggetti di ricerca per la pace. [3]

Come ogni convegno, anche questo è stato occasione di conoscenze, scambi, contatti tra ricercatori e operatori per la pace. Le relazioni ufficiali hanno dato alcuni contributi interessanti ed utili, corrispondenti alle esigenze che più sotto proporremo. Ma in questa relazione ci soffermeremo soprattutto su alcuni aspetti che meritano una discussione, speriamo positiva ed utile.

Janice Gross Stein (Università di Toronto, Canada) ha presentato in sintesi un ampio rapporto (di cui è coautrice con Michael Bryans e Bruce D. Jones) su L'azione umanitaria nelle emergenze politiche complesse - Scelte difficili, atroci dilemmi. Il rapporto, al centro dell'attenzione del convegno, ha esaminato in particolare le emergenze Somalia 1992-93, Ruanda 1994, Sierra Leone 1996. Poiché le guerre civili, in cui le popolazioni sono usate contemporaneamente come bersagli e scudi (p. 5), risultano da situazioni di crollo o di patologia dello Stato (p. 7), le organizzazioni umanitarie vengono coinvolte nel conflitto, diventano bersaglio o sono utilizzate dalle parti, fino ad essere "trasformate da fonti di protezione in strumenti per la distruzione" (p. 12).

Il documento è realistico e concreto. Il più grave problema rilevato è la mancanza di protezione, da parte dell'Onu come degli Stati, degli interventi umanitari. Su questo punto il documento arriva a proporre di prendere in considerazione l'alternativa privata: "una "legione straniera" formata da personale retribuito, volontario, professionalmente addestrato, assoldato senza distinzione di nazionalità e dipendente dal datore di lavoro piuttosto che da un particolare governo" (p. 36). Insomma, una sicurezza privata, armata, mercenaria, a difesa militare dell'intervento umanitario! Questo punto, al quale la stessa relatrice ha dato rilievo, ha suscitato vive reazioni.

Esso ci pare indicativo della debolezza e timidezza di impostazione di tutto il convegno, apparsa anche in altri suoi momenti: soccorrere le vittime è un'ottima cosa, più che doverosa, ma non è lavoro per la pace; è un parzialissimo rimedio alla guerra, come il soccorso alle vittime della strada non è la sicurezza stradale. Se poi si intende rimediare alla guerra con interventi umanitari-armati siamo in una bella contraddizione, in linea peraltro con il recente inganno della stessa "guerra umanitaria"!

Il primo vero ruolo delle organizzazioni non governative, rispetto alla guerra, è di farsi preventive della guerra e trasformatrici dei conflitti, da acuti e armati in conflitti socializzati, politicizzati, gestiti in modo costruttivo anziché distruttivo. La pace, infatti, è quella che si assicura invece della guerra, e non quella che viene dopo la guerra. Questa non è altro che lo scopo stesso della guerra, suo culmine e risultato: l'imposizione della volontà del vincitore al vinto. Questa "pace" usurpa il nome, perché è soltanto il supremo atto di guerra.
Se vogliamo parlare di pace e fare studi per la pace dobbiamo sapere che la pace non è altro che la soluzione non distruttiva dei conflitti. L'emergenza umanitaria non è il conflitto, un elemento costitutivo della vita, ma la sua gestione armata, distruttiva, omicida, cioè la guerra con tutte le sue conseguenze immediate, ma anche quelle lunghe e profonde, negli animi e nelle menti. Le vittime della guerra chiedono, sì, di essere soccorse, ma ben prima avanzano alla comunità civile il loro assoluto diritto di non essere fatte vittime.

Il grosso limite del convegno veneziano (dopo vedremo il merito) è stato l'aver preso il problema della guerra ex-post e non ex-ante, che è il vero modo di porlo dal punto di vista della ricerca di pace. La guerra è un fatto da eliminare, non da gestire, non da rimediare. Inutile argomentare qui la provata convinzione che la guerra è una realtà storica, non naturale, non metafisica, che può aver fine come ha avuto un'origine abbastanza databile col sorgere della città-stato. La guerra, infatti, non è la semplice violenza umana, ma la sua organizzazione politica e scientifica, la sua giustificazione e solennizzazione, la sua assurda elevazione a criterio decisivo del diritto. L'eliminazione della guerra è l'obiettivo primo degli studi e dell'azione per la pace, che altrimenti si riducono a ben poco, a qualcosa di funzionale alle stesse culture e forze che provocano e utilizzano le guerre.

Certo, se c'è la malattia è necessaria la medicina riparativa. Ma è gravemente insufficiente una medicina che non cerchi anche di essere preventiva. Guardiamo il caso della recente guerra Nato (Usa)-Serbia per il Kossovo. [4]   Le diplomazie e le politiche statali hanno mancato di saggezza e di responsabilità, ignorando, negando riconoscimento ed appoggio alla via nonviolenta di soluzione giusta del conflitto, via che è esistita realmente per quasi dieci anni, seguita dalla grande maggioranza della popolazione kossovara-albanese, guidata da Ibrahim Rugova. Solo i movimenti e le organizzazioni non governative autenticamente e positivamente pacifiche, che conoscevano e sostenevano quella esemplare resistenza nonviolenta, hanno praticato la medicina preventiva, per quanto potevano coi loro pochissimi mezzi. Invece le diplomazie e le politiche statali hanno predisposto e deciso soltanto i mezzi violenti, perché hanno saputo vedere il conflitto soltanto quando (anche col loro contributo!) è degenerato diventando violento, perciò finalmente utilizzabile nella loro cultura politica legata al dogma superstizioso della violenza come istanza decisiva di tutto.
Una tale politica è corta e cieca, tardiva, terribilmente semplificatrice, ignorante nell'arte del conflitto vitale, quindi nella politica tout court. Non esitiamo a dire che si tratta di un analfabetismo etico-politico, tanto da non meritare il nome serio e grande di politica, la nobile arte del fare polis, del vivere insieme, che è il perfetto contrario dell'usare la morte per risolvere i problemi (inevitabili) della convivenza.

Ora, a fronte di queste politiche cieche ed omicide, parziali e settarie (come è nella natura degli stati, che sono fazioni dell'umanità, belligeni in quanto ancora si pretendono - come singoli stati nazionali o come alleanze imperiali - sovrani, vale a dire insubordinati alla legge universale) sorgono dalla società civile - perché l'umanità, grazie a Dio, non è morta - le organizzazioni non governative. Le quali, pur nella varietà di fini e mezzi, e nei loro limiti e contraddizioni, portano interessi umani universali, sono mosse da un'etica e una politica pan-umane. Le potenzialità di pace per il mondo stanno in esse, non negli stati, neppure in quelli democratici, ancora incapaci (lo abbiamo appena visto) di uscire dalle angustie pericolose della loro cinica parzialità faziosa. Li vediamo, infatti, specialmente i più potenti, farsi oppositori e sabotatori sistematici delle istituzioni giuridiche e politiche dell'umanità intera, che sono nate in questo 20° secolo, e potrebbero essere strumenti validi di una pace istituzionale.

Da un convegno sulle organizzazioni non governative, sulla guerra e la pace, mi aspettavo questo respiro di osservazioni e progettazioni, niente di meno. Tuttavia, riconosco un merito del convegno: l'aver posto una possibilità di dialogo e confronto fra accademici, diplomatici, personale governativo (mancavano i militari) da un lato e, dall'altro, ricercatori della cultura di pace e operatori di pace nelle organizzazioni non governative. Questo dialogo non si è sviluppato a Venezia, anche per il tempo limitato di discussione, ma può essere una chance interessante di questo modello di convegno. La non-comunicazione tra le due culture è grande, fino al reciproco disinteresse e, a volte, disprezzo. Direi di più: se un dialogo aperto fra queste parti può instaurarsi, esso dovrebbe coinvolgere anche i militari. La loro etica tradizionale, e certamente rispettabile, di "cavaliere difensore" della popolazione civile, oggi è messa a totale repentaglio dalla guerra super-tecnologica e totale, che è diventata una esecuzione, compiuta da arci-armati irraggiungibili nell'alto dei cieli, sulle popolazioni civili inermi e sulle strutture necessarie alla loro vita. "Bomb today, kill tomorrow", è stata ben definita l'ultima forma di guerra: neppure più un duello (rito di adorazione della forza bruta e non del diritto), ma un semplice vigliacco agguato. Il militare che si assume la responsabilità dell'uso della forza nel caso estremo, deve oggi arrivare a trasformarne l'uso di guerra in uso di polizia. Polizia e guerra sono differenti non a parole, ma nella sostanza, nel fine e nei metodi. [5]  Una polizia internazionale è prevista nella Carta dell'Onu ma è impedita dalla prepotenza illegale delle potenze, in primis di quelle militarmente più forti. L'etica del soldato leale deve proibirgli di servire questi disegni sovversivi della legge dell'umanità. La guerra può essere abolita anche per opera dei militari, se la loro cultura è capace di discutersi e di evolvere, se non ha paura di mettersi a confronto, se ha un'etica della difesa e non dell'offesa, dell'obbedienza ragionata e responsabile anziché cieca, meccanica, inumana.

Di questi confronti a campo aperto c'è bisogno, e mancano le occasioni. I previsti convegni annuali veneziani possono essere una bella occasione.

Enrico Peyretti (10.10.1999)

Del Movimento Nonviolento e del Movimento Internazionale della Riconciliazione.
Membro dell'IPRI, Italian Peace Research Institute
Centro Studi "Domenico Sereno Regis", via Garibaldi 13, 10122 Torino
Tel 011.53.28.24, fax 011.51.58.000. E-mail: regis@arpnet.it
Web:http://www.arpnet.it/~regis

[1]  S. Polo 2160, 30125 Venezia, tel-fax 041 240106, e-mail fond.veripa@iol.it
[2]  Sottotemi: 1) La protezione dello spazio umanitario; 2) La protezione dello spazio umanitario: chi paga?; 3) Tra neutralità e testimonianza; 4) Impegno solidale: dilemmi per il futuro.
[3] Noi preferiamo parlare di "ricerca per la pace" anziché "sulla pace", considerando questa un bene da costruire con lo studio e l'azione, e non solo un oggetto da studiare.
[4] Scrivo volutamente Kossovo, con due "s", adottando una vecchia grafia italiana, per evitare tanto la grafia serba Kosovo (fatta propria da tutti i nostri media, peraltro scatenati nella demonizzazione dei serbi), quanto la grafia albanese Kosova.
[5] Questa evidente differenza, ma spesso dimenticata oppure occultata in malafede con lo scambio dei termini, l'ho richiamata nel cap. X del mio libretto Per perdere la guerra, Beppe Grande editore, Torino 1999, pp. 39-41.