Una storia chiamata alle armi
IAIA
VANTAGGIATO - FIRENZE
Coniata nel 1986 da Jürgen Habermas,
l'espressione "uso pubblico della storia" è stata poi ripresa,
in Italia, da Nicola Gallerano nel senso più proprio di uso
pubblico della memoria storica, del complesso rapporto tra
storia e memoria. Ora, là dove si decida di fare della guerra
- e, in particolare, degli eventi bellici del Novecento -
l'oggetto di un discorso sull'uso pubblico della storia (tema
affrontato a Firenze, il 3 e 4 novembre, nel corso di un
convegno organizzato dall'Istituto Gramsci toscano) alcuni
nodi inevitabilmente emergeranno: la legittimazione storica
dei conflitti, la preparazione di una opinione pubblica
favorevole, la propaganda, la costruzione di una memoria della
guerra che può trasformarsi anche in sua rimozione. Novecento,
dicevamo, perché è in questo secolo che la politica, anche nei
suoi esiti bellici, per legittimarsi si serve della storia;
Novecento, ancora, perché è a cavallo tra anni '80 e '90 che
affiora l'ansia diffusa per un passato nazionale condiviso che
- per essere costruito - ha bisogno di quei miti e di quei
simboli di cui la storia è grande dispensatrice. Pensiamo a
un conflitto, come quello del Kosovo, in cui tutti i
contendenti hanno abusato della storia per costruire o
rafforzare le identità balcaniche: basti, per tutte, "il
richiamo dei Serbi a un lontanissimo passato di sconfitta, ma
anche di difesa, di martirio come avamposto della cristianità
contro l'invasione islamica" (Santomassimo). Novecento,
infine, perché è nel suo ultimo decennio che la legittimazione
della guerra fa leva su un immaginario collettivo che si fonda
sul paradigma della guerra antifascista e antihitleriana. Lo
ha spiegato molto bene Gianpasquale Santomassimo nel corso
della sua densa relazione introduttiva: "Solo nell'ultimo
decennio l'immaginario democratico dell'Occidente ha assunto
valore di paradigma. E anche di gigantesca narrazione
collettiva, l'unica universalmente accettata come punto di
riferimento. Dai vincitori come dagli sconfitti". E'
insomma con la fine della guerra fredda che la lotta al
fascismo e al nazismo diventa paradigma. Da qui l'esigenza di
individuare "nuovi Hitler" da combattere: Saddam Hussein nel
periodo della guerra del Golfo, Milosevic nel conflitto
balcanico. In questo caso, però, non è più solo l'Hitler delle
conquiste territoriali a essere evocato ma il creatore di
Auschwitz, il responsabile del genocidio degli ebrei. L'esito
è una banalizzazione sconsiderata della Shoah che viene
paragonata a una delle tante guerre civili di media intensità:
"Ciò che non è riuscito a Nolte - ha affermato Santomassimo -
è riuscito alla Nato". E' qui che si verifica lo sciagurato
passaggio da un uso pubblico a un uso politico della storia.
Ed è qui che cominciano a risuonare gli stereotipi della
guerra giusta, etica, "umanitaria", dell'ultima guerra, quella
che pone fine a tutte le guerre. Suoi cantori sono l'allegra
schiera degli interventisti democratici cui, nel corso
dell'incontro, era dedicato l'efficace intervento di Angelo
d'Orsi: una tradizione, quella dell'interventismo democratico,
che nasce con la guerra di Libia e di cui si faranno
interpreti entusiasti Salvemini e Bissolati convinti che, per
rimanere nel solco della tradizione occidentale, fosse
necessario schierarsi per la democrazia e la
patria. L'interventismo democratico, insomma, produce
guerre democratiche: "Per sostenere le ragioni dei
buoni - afferma d'Orsi - si fa ricorso al magazzino della
storia: risorgimento, ultima guerra, IV guerra d'indipendenza.
La parola chiave è guerra giusta e, su questa via, la
democrazia si esporta con le armi". Per non parlare, poi,
della sindrome del missionario dove non è difficile vedere
come "la croce si trasformi in spada" (d'Orsi). Dell'uso
del risorgimento da parte dell'interventismo democratico si è
occupato nella sua relazione anche Massimo Baioni consonante
con d'Orsi nel giudizio su Salvemini. Una tradizione,
quella dell'interventismo democratico, che la guerra del Golfo
riprende e rilancia. Il ricorso alla storia, come sostiene
d'Orsi, si fa qui sempre più necessario per la preparazione
propagandistica e la mobilitazione di intellettuali, "uomini
di cultura che diventano costruttori di verità. E il tutto "in
nome di una democrazia sempre più impolitica". Sul finire del
Novecento, insomma, l'uso della storia diventa centrale nella
mobilitazione, nelle motivazioni e nella memoria. Anche e
soprattutto in Germania, come ha dimostrato l'illuminante
relazione di Enzo Collotti: "Da entrambe le guerre sostiene
Collotti - la Germania è uscita sconfitta e l'eredità della
sconfitta ha pesato come un macigno su ogni fase
dell'elaborazione politica, storica e culturale
dell'esperienza del conflitto e del suo incontro con la
memoria della guerra". Eredità legata a una precisa
periodizzazione che va dalla Repubblica di Weimar - nel corso
della quale "la memoria della guerra monopolizzò buona parte
degli atteggiamenti pubblici legati alla costruzione di una
identità democratico-repubblicana" - al Terzo Reich
Fondamentale durante il quale "l'uso pubblico della storia
rappresenta il cuore della cultura politica del
nazionalsocialismo". Nel corso del Terzo Reich la storia
diventa propaganda tout court così perdendo ogni
autonomia epistemologica. E' propaganda per la rinascita della
nazione, per la potenza tedesca, per la preparazione alla
guerra. Nel caso della Germania furono, inoltre, gli stessi
storici responsabili della generazione politica dell'uso della
storia. Di particolare interesse, tuttavia, sono le
riflessioni che Collotti dedica all'uso della storia nel
periodo successivo alla sconfitta del Terzo Reich dove a una
prima fase in cui il ricorso alla guerra era completamente
bandito seguì - all'inizio degli anni Cinquanta - una
frantumazione dell'apparente unitario fronte pacifista.
Oggetto di discussione è l'esperienza sulla Wermacht:
"poteva rappresentare un modello esemplare per una futura
forza armata tedesca e quale eredità poteva trasmettere?"
Nasceva in quegli anni la leggenda di una Wermacht
pulita. Intense le pagine che Collotti dedica al discorso
che il cancelliere Brandt tenne l'8 maggio del 1970,
venticinque anni dopo la fine della guerra: "Brandt nel
ricordare la guerra iniziata da Hitler rendeva omaggio alle
vittime e ammoniva il popolo tedesco dell'importanza di farsi
consapevole della propria storia perché 'nessuno è affrancato
dalla storia che ha ereditato'". Una storia che la Germania
fatica a elaborare: che si tratti delle celebrazioni dell'8
maggio o della guerra contro la Jugoslavia che "non serviva
certo a risolvere il problema dell'oppressione dei kossovari
ma a ripulire la falsa coscienza dei tedeschi e a ovviare alle
lacune del processo di elaborazione del passato". E nel
dibattito su uso pubblico e uso privato della storia si fa
spesso strada, nel convegno fiorentino, il tema della
propaganda definita da Nicola Labanca "la prosecuzione della
guerra con altri mezzi" e la cui evoluzione segue quella della
guerra stessa: dai conflitti consumatisi tra fine '800 e inizi
'900 alle guerre mondiali, alla guerra fredda, a quelle
combattute tra la metà degli anni '70 e i primi anni '90
(Faulkland, Haiti) alle guerre dell'ultimo decennio del secolo
appena passato: Golfo, Somalia, Kossovo. Per ogni guerra una
propaganda, si potrebbe dire. Ma ciò che più conta è il nesso
tra propaganda e democarazia a conferma che l'abuso (politico)
della storia non è patrimonio esclusivo dei regimi totalitari.
Da una connotazione della propaganda come antitetica rispetto
alle libertà formali del pensiero democratico al considerarla
come assolutamente necessario agli istituti della democrazia.
Interessante anche il rapporto tra propaganda di guerra e
evoluzione tecnologica: è la prima infowar della storia
quella che viene combattuta nel Golfo, tanto potente nel suo
impatto mediatico da riuscire a alterare profondamente
l'immaginario stesso della guerra. Impossibile, in questa
sede, dar conto di tutti gli interventi: da quelli sui
conflitti balcanici di cui si sono occupati Antonio Sema e
Marco Galeazzi, all'interventismo degli intellettuali
(Maurizio Vaudagna), al ruolo della storia nelle guerre
francesi (Massimo Mastrogregori), alle guerre di Stalin
(Francesco Benvenuti), al ruolo delle donne nella guerra (Emma
Schiavon), all'uso pubblico della storia nel Terzo Mondo
(Gianni Sofri). Un piccolo cenno merita però l'intervento
di Sandro Portelli che ha sottolineato come negli Stati uniti
sia prevalsa una lettura in termini biblici - la guerra è
guerra contro il diavolo e per il bene - degli avvenimenti:
"di altro non si tratta che del dispiegamento nella storia
mondana dell'archetipo atemporale della storia
sacra". Un'altra angolatura per interrogarsi, prima ancora
che sull'interventismo democratico, sulla democrazia stessa e
sul nesso - troppe volte dato per scontato sino alla fine del
bipolarismo - tra democrazia e libertà. Che sia questa la
chiave per riuscire a capire perché la democrazia venga troppo
spesso esportata con le
armi?
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