Aldo Capitini e l'obiezione di coscienza
Aldo Capitini maturò lentamente la scelta per la nonviolenza. Da adolescente
visse l'esperienza del futurismo, della poesia crepuscolare e del dannunzianesimo
e la cultura che permeava l'Italia di allora lo rese inconsapevolmente
nazionalista ed interventista. Nel 1915 insieme ai suoi coetanei andò
a salutare con entusiasmo i professori che partivano per il fronte, mentre
a lui soltanto la gracile costituzione evitò il servizio militare e la
guerra. La sua grande trasformazione ideologica avvenne fra il 1918 ed
il 1919 quando abbandonò le idee nazionaliste e considerò la guerra "in
rapporto, meno con la nazione, e più con l'umanità sofferente"; iniziò
allora ad apprezzare i fondamenti del socialismo, mentre già da qualche
anno aveva abbandonato la pratica della religione cattolica.
Terminato l'istituto tecnico, si mise a studiare da autodidatta il latino
ed il greco, i grandi autori classici ed i testi sacri del cristianesimo.
L'intenso sforzo intellettivo gli causò un esaurimento psico-fisico.
Per ritrovare la salute accettò un posto da precettore nella campagna
umbra. Partecipò poco agli avvenimenti politici, in quanto la sua fu
una formazione principalmente interiore, ma il dramma che visse l'Italia
in quegli anni (la marcia su Roma, l'uccisione di Matteotti, l'avvento
della dittatura) rafforzò la sua totale avversione al fascismo. Nel
1924 ottenne come esterno la licenza liceale e grazie ad una borsa di
studio si iscrisse alla Facoltà di Lettere e Filosofia all'università
di Pisa. Alla Normale si legò d'amicizia con studenti e professori avversi
al fascismo, pur senza attivarsi personalmente in politica. Si laureò
nel 1928 con pieni voti e lode. La firma dei Patti Lateranensi avvenuta
l'anno seguente approfondì il suo distacco sia verso l'istituzione romana,
colpevole di essersi rivelata ancora una volta "alleata dei tiranni",
sia verso il fascismo, l'avversione al quale divenne non più solo politica,
ma anche religiosa. Contemporaneamente Capitini ricerco' la forza interiore
negli spiriti religiosi puri, quali Cristo, Buddha, San Francesco, Gandhi.
In particolare fu ammiratore di San Francesco d'Assisi, rimanendo colpito
dal fatto che egli reintrodusse nella spiritualità cristiana il tema
della nonviolenza: il metodo di San Francesco fu "quello di andare a
parlare con i saraceni piuttosto che sterminarli nelle Crociate, nelle
quali il sangue talvolta arrivava ai ginocchi" (). Ma soprattutto
fu ammiratore di Gandhi. In lui trovò lo spirito di tolleranza verso
le altre religioni ed il senso che ogni lotta per la libertà è anche
una lotta religiosa (). Capitini confrontò Gandhi con Mazzini ed evidenziò
che quest'ultimo fu troppo ligio allo Stato ed ai mezzi (tra cui la violenza)
di cui lo Stato si serve per raggiungere i propri scopi; inoltre, mentre
Gandhi scosse e liberò l'India, Mazzini non riuscì a formare se non piccoli
gruppi di cospiratori ().
Capitini iniziò a lavorare alla Normale di Pisa, chiamato da Gentile,
ma, invitato dal vicedirettore della scuola ad inviare un telegramma
di congratulazioni a Mussolini, rifiutò decisamente. In questo periodo
approfondì la conoscenza del metodo nonviolento di Gandhi e contemporaneamente
divenne vegetariano; tale scelta accentuò la tensione esistente fra lui
e Gentile. Nel 1933 rifiutò di prendere la tessera del Partito Fascista
e per questo motivo venne allontanato dal suo posto alla Normale. Ritornò
a Perugia dove visse poveramente impartendo lezioni private; nello stesso
tempo creò una fitta rete di amicizie, costituendo gruppi antifascisti
a Firenze ed a Roma, e collaborò con intellettuali come Leone Ginzburg
ed Elio Vittorini. Fu presentato anche a Benedetto Croce, il quale benché
su posizioni diverse dalle sue lo aiutò a pubblicare i suoi scritti
presso l'editore Laterza. Così nel 1937 uscì il libro Elementi di un'esperienza
religiosa, che ebbe successo tra gli antifascisti, sebbene non furono
molti ad accogliere le tesi dell'autore sulla nonviolenza, sulla non
collaborazione e sulla libera religiosità. Nel 1940 a Bologna Capitini
organizzò gli anti-littoriali, cioé riunioni serali affollatissime
di antifascisti che si svolgevano nei giorni stessi dei littoriali fascisti.
Egli fu dunque uno dei protagonisti della Resistenza interna ed al
riguardo inventò una formula nuova: il liberalsocialismo. Ma quando
i suoi compagni confluirono in un partito, il Partito d'Azione, Capitini
non vi aderì e preferì restare da solo. Considerava infatti il suo liberalsocialismo
l'insegna non di un partito in nuce, ma di un movimento etico-religioso,
che mirava ad un rinnovamento più profondo, non soltanto sociale ma morale,
cui non sarebbe stata adatta la forma di partito. Egli ne fu uno dei
fondatori nel 1937 insieme con Guido Calogero, ma tenne sempre a distinguere
il suo liberalsocialismo da quello degli altri compagni per l'impegno
etico-religioso e non soltanto politico di cui l'aveva animato. Il movimento
non si sarebbe mai dovuto trasformare in partito: era "un atteggiamento
dell'anima, un aprirsi in una direzione, una certezza ed una speranza
sempre rinnovantisi, (...) un orientamento della coscienza" (). "Beninteso,
non era soltanto questo: era anche un'ideologia. Ma anche in quanto
ideologia, il liberalsocialismo di Capitini rappresentò una corrente
di minoranza, quasi un'eresia, che si richiamava più alla 'rivoluzione
liberale' di Piero Gobetti che non al 'socialismo liberale' di Carlo
Rosselli. La differenza sta nella diversa valutazione del comunismo
e quindi nel diverso atteggiamento di fronte all'Unione Sovietica. Il
socialismo liberale stava al di qua del comunismo: Capitini si mostrò
sempre più convinto col passar degli anni che il comunismo, nel suo
aspetto economico di eliminazione del capitalismo, cioé di collettivismo,
fosse una tappa obbligata del progresso storico e si dovesse quindi non
evitarlo ma trarlo alle sue estreme conseguenze, non negarlo ma condurlo
a compimento: insomma, ancora una volta, non stare al di qua ma andare
al di là. Racchiuse il suo programma politico in questa formula: 'Massima
libertà sul piano giuridico e culturale e massimo socialismo sul piano
economico'" (). Norberto Bobbio, intervista dall'autore, afferma che
in quegli anni non si parlava ancora di nonviolenza, perché si viveva
in una società violenta che non lasciava spazio alla ricerca concreta
di modelli alternativi di lotta politica. Il liberalsocialismo fu un
amalgama di correnti di pensiero con ispirazioni ideologiche diverse.
Una di esse confluì poi nel Partito d'Azione e scelse quindi la via della
lotta armata, ma non si deve confondere il movimento con le opzioni
attuate da una sua parte e perciò fu possibile la coesistenza nel liberalsocialismo
contemporaneamente di uomini che decisero di opporsi al fascismo in
modi fra loro opposti.
Nel febbraio 1942 Capitini venne arrestato e fu detenuto per quattro
mesi nel carcere delle Murate di Firenze, condividendo la cella con
Guido Calogero. Nel maggio 1943 fu nuovamente arrestato a Perugia e
venne liberato il 25 luglio. Tutto sommato il fascismo si comportò in
maniera piuttosto delicata con lui e forse ciò accadde per motivi politici.
Egli, infatti, era un gandhiano ed il regime sosteneva Gandhi contro
gli inglesi; pertanto Mussolini non aveva interesse a perseguitarlo
con durezza. Le sue idee nonviolente non fecero però presa fra gli amici,
che comunque le rispettavano. Quando l'antifascismo si trasformò in
rivolta armata, Capitini non partecipò al movimento partigiano e si
dovette nascondere nella campagna per sfuggire ai tedeschi fino al 20
giugno 1944 quando Perugia venne liberata. Probabilmente si aprì allora
per lui un periodo difficile. Infatti è una situazione spiacevole quella
in cui la coerenza alle proprie idee porta a scelte comode. D'altro canto
Capitini aveva coscienza del fatto che per arrivare alla società nuova
il passaggio poteva essere compiuto con la violenza. Una violenza, però
che si contrapponesse a quella fascista e servisse solo per liberare
e non per opprimere. Cio' divenne inevitabile quando il fascismo portò
gli italiani in guerra e dopo tanti errori politici e militari vennero
l'armistizio, l'8 settembre e l'occupazione tedesca. Capitini non condannò
mai la violenza partigiana. "A me", diceva "nell'incontro con i giovani
importava che si formassero una coscienza. La decisione violenta o la
decisione nonviolenta era secondaria". Egli non vide contraddizione
nel fatto che alcuni fossero stati mossi da un libro di nonviolenza
e poi fossero diventati partigiani, perché, pensava, chi sceglie la nonviolenza
vuole soprattutto che si prenda l'iniziativa secondo coscienza. In effetti
l'opera di Capitini aveva avuto influenza sui giovani e la sua attività
clandestina nel periodo 1932-43 aveva fatto affluire nuove energie nella
lotta armata della Resistenza, di cui egli aveva formato moralmente
ed ideologicamente molti fra i quadri migliori ().
Coloro che ebbero più riserve nei suoi confronti furono i comunisti,
che stabilivano una correlazione diretta fra chi non si era opposto con
le armi al nazi-fascismo ed una sorta di collaborazionismo con il regime.
Ciò nonostante egli aderì al Fronte Democratico Popolare, ma le sue
proposte di indire assemblee popolari "nonviolente e ragionanti" non
furono ascoltate. In un articolo del marzo 1948, ad un mese dalle elezioni,
Capitini mostrava la speranza che il Fronte Democratico Popolare potesse
accogliere la sua proposta di istituire il servizio civile e quella
di un ministero della pace o almeno di un Commissariato per la "Resistenza
alla guerra". "La sua proposta era destinata ovviamente al naufragio
dopo il risultato elettorale, da cui la sinistra uscì sconfitta. Ma
nonostante le illusioni di Capitini, quanti nella sinistra avvertivano
l'urgenza di istituire un Ministero della Pace e di introdurre il servizio
civile alternativo a quello militare? Certo, se con la vittoria del
Fronte Popolare un sentiero seppur impervio poteva essere intrapreso,
ora la strada era bloccata" ().
In un articolo dell'estate intitolato Opposizione alla guerra () egli
registrò le sue sconsolate annotazioni sulla "pericolosità del governo
uscito dal 18 aprile". "Da parte governativa", scriveva "le cose vanno
peggiorando. Al bilancio dello Stato per il 1948-49 è stata messa la
somma di duecentocinquantasei miliardi per le spese militari. (...)
C'è tutto un ravvivarsi di sollecitazioni militari, di cerimonie, sfilate,
comandi secchi, rombo di carri armati. (...) Il governo, dunque, e la
politica dirigente l'Italia non danno garanzie di 'opposizione alla guerra'"
().
Dopo la liberazione le sue idee personali, condite di forti convincimenti
religiosi, lo allontanarono da coloro che un tempo gli erano stati compagni.
Egli non aderì a nessun partito e per definire se stesso fu il primo
ad usare il temine "indipendente di sinistra". Ritornò all'università
di Pisa, ma alla richiesta avanzata a nome della scuola da Luigi Russo,
allora direttore, di nominare Capitini vicedirettore il Ministro della
Pubblica Istruzione si oppose seccamente. Capitini comunque si prodigò
per seminare nell'Italia ormai libera le sue idee nonviolente e di rinnovamento
religioso, organizzando comitati pacifisti di resistenza alla guerra.
Nel succitato articolo Opposizione alla guerra egli riassunse i problemi
e le proposte presentate ai convegni: "Continuare il collegamento fra
tutte le attivita' italiane per la pace; pubblicare un bollettino mensile
di informazione delle iniziative, dei libri sull'argomento, dei giornali
ed opuscoli (che sono gia' molti, tra gli altri un ottimo opuscolo degli
anarchici); invitare deputati e senatori a costituire un gruppo parlamentare
per la pace assoluta; sollecitare una legge per il riconoscimento dell'obiezione
di coscienza; mettere allo studio l'istituzione di un servizio civile
di lavoro a fianco del servizio militare per cui i giovani chiamati possano
scegliere; stabilire un comitato di assistenza ai perseguitati italiani
e stranieri; fare una campagna contro il giocattolo militare; diffondere
la conoscenza di Gandhi; interessare il popolo e specialmente le madri
all'opposizione alla guerra, mediante un'azione che propaghi il metodo
della libera discussione tenuto nei C.O.S., cioé di due persone che
in qualsiasi luogo, piazza di citta' o di villaggio, treno, scuola o
in sala apposita, cominciano una discussione ad alta voce ammettendo
il libero intervento di tutti; in questo modo si crea un interessamento
generale e si formano gruppi di oppositori".
Colpisce, però, il modo in cui Capitini fu trattato dalla nuova Repubblica
ed al riguardo è illuminante consultare la schedatura dell'intellettuale
effettuata dalla Questura di Perugia dal 1930 al 1968. Se si comprende
la schedatura fascista, più difficile da spiegare è quella repubblicana,
soprattutto quando è evidente che un cittadino che si batteva per un
futuro migliore per il Paese veniva trattato con stupidità crudele e
con compiaciuto e brutale disprezzo. Come quando un maresciallo di Pubblica
Sicurezza di Perugia nel marzo 1949 scriveva che Capitini "è elemento
'sinistroide' contrario alla guerra (...) spietato critico della religione
cattolica" e che "non gode buona estimazione nel pubblico per le sue
idee da squinternato" ().
L'interesse di Aldo Capitini per l'obiezione di coscienza, che egli
definiva obiezione al "servizio dell'uccisione militare", si può far
risalire alla sua amicizia con Claudio Baglietto, il giovane allievo
della Scuola Normale Superiore di Pisa, rifiutatosi di vestire la divisa
nel '32 e morto esule nel '40. Capitini, pur non sottovalutando i motivi
politici che possono spingere all'obiezione, esaltava le motivazioni
religiose, poiché secondo lui la religione aggiunge una forza vincolante,
nel suo linguaggio una "persuasione", che pare inaccessibile alla sola
ragione ().
In quegli anni iniziò a nascere un piccolo interesse per l'obiezione,
anche se in un ambito ristrettissimo. Lo testimoniano alcune lettere
dell'ottobre e novembre 1947, presenti nei carteggi di Capitini custodite
dalla Fondazione omonima di Perugia, con alcuni amici, in cui si parla
di un volantino che doveva essere preparato e che doveva riferirsi anche
all'obiezione di coscienza, seppure in termini molto sottintesi, probabilmente
per non incorrere nei rigori della legge.
All'inizio del 1949 l'opinione pubblica italiana venne a conoscenza dell'obiezione
professata da Pietro Pinna. Il giovane aveva incontrato casualmente Aldo
Capitini in un convegno del Movimento di Religione tenutosi a Ferrara
nel corso del 1948. In quell'occasione Capitini aveva parlato anche
di obiezione di coscienza e Pinna era stato affascinato dalle sue idee
di opposizione alla guerra. Gli scrisse diverse volte, parlandogli del
suo proposito di obiettare, ma Capitini per non influenzarlo nella sua
scelta carica di conseguenze dolorose non gli rispose, se non dopo che
il giovane fu posto in prigione, quando si attivo' vivacemente per far
conoscere il suo caso all'opinione pubblica. Pertanto il giovane arrivò
a prendere la sua decisione in maniera lenta e spontanea. Pinna comprese
perfettamente lo scrupolo dell'intellettuale nel rispondergli. Infatti
in seguito gli scrisse queste parole: "Voglia credermi in buona fede
quando Le dico che allorché scrissi la mia prima lettera la decisione
era ormai matura in me. Si trattava soltanto di dar tempo di morire
a quella parte di materialità che stava ancora attaccata alla decisione
presa". Il 13 febbraio 1949 Capitini gli rispondeva: "Ho avuto le Sue
lettere e rispondo assicurando che di cio' che Le accade ho informato
molti, anche un parlamentare. Lei ha capito che non ho voluto influire
sulla Sua decisione, sapendo bene i dolori che Le verranno per la Sua
idea, che e' anche quella di Silvano Balboni e mia. Poteva essere comodo,
dallo stato in cui ora mi trovo, immune da tale obbligo, al quale contrasterei
con la stessa fermezza che Lei dimostra, esortare ad incontrare le punizioni
che una legge incivile assegna". Dopo la presa di posizione di Pinna,
Capitini si prodigò perché il suo caso non restasse sconosciuto: scrisse
ad amici parlamentari, interessò pacifisti italiani ed esteri, intervenenne
sulla stampa e prese le sue parti di fronte al Tribunale Militare di
Torino, essendo teste, per l'ideologia, insieme ad Umberto Calosso e
a Edmondo Marcucci. "Se forse senza di lui il problema avrebbe ugualmente
toccato un po' di opinione pubblica, certamente, senza quel suo apporto,
il tema dell'obiezione di coscienza non avrebbe fatto quegli immediati
e sicuri progressi, acquistato quel rilievo e quel credito da imporsi
come problema davanti alla nazione" ().
Da quel momento Capitini assunse un impegno costante a sostegno degli
obiettori (). E' interessante, pero', osservare al riguardo come per
l'intellettuale umbro il problema dell'obiezione non si limitasse ad
una lotta giuridica; per lui doveva trattarsi di un vero e proprio cambiamento
di mentalita'. Scriveva infatti: "I due aspetti dell'obiezione di coscienza
sono: quello legale (arrivare ad una legge che riconosca l'obiezione
di coscienza); quello piu' propriamente morale e religioso (iniziare coerentemente
un atteggiamento dell'animo diverso da quello di fare la guerra, dell'armarsi,
dell'uccidere)" ().
La prima proposta di legge volta a riconoscere gli obiettori di coscienza
fu presentata dagli onorevoli Calosso e Giordani. Essa aveva diversi
difetti. Ad esempio nell'art. 1 veniva demandata la capacità di giudizio
sul riconoscimento dell'obiezione ad un tribunale militare, cioé ad
un organo non obiettivo e sopra le parti, ma coinvolto nella causa. "È
evidente", affermava Aldo Capitini "che del tribunale non debbono far
parte militari, come se l'obiezione di coscienza sia un'indisciplina
interna all'esercito, perche' invece essa fa appello ad altro, a motivi
e leggi morali o religiose su cui l'esercito e' incompetente a giudicare".
Il 28 e 29 ottobre 1950 si tenne a Roma il primo convegno italiano dei
problemi dell'obiezione di coscienza, nel quale Capitini svolse la relazione
introduttiva su La situazione internazionale e l'obiezione di coscienza.
Nello stesso anno dal 17 al 24 agosto partecipò a Londra al congresso
mondiale delle religioni per la fondazione della pace, durante il quale
parlò, tra l'altro, del lavoro che veniva svolto in Italia a favore dell'obiezione.
Organizzato da Capitini si tenne a Perugia tra il 30 ed il 31 gennaio
1952, in occasione del quarto anniversario dell'uccisione di Gandhi,
un convegno internazionale per la nonviolenza. Al termine dei lavori
si costituì, sempre su iniziativa di Capitini, un Centro di coordinamento
internazionale per la nonviolenza, che rappresentò il primo nucleo
di persone che avrebbero dato vita in seguito al Movimento Nonviolento.
Sempre a Perugia promosse tra il 12 ed 14 settembre dello stesso anno
un convegno di studio su La nonviolenza riguardo al mondo animale e
vegetale. Inoltre fondò il Centro di orientamento religioso (C.O.R.)
ed ebbe come collaboratrice Emma Thomas, una quacchera inglese. "Anche
sul COR si addensano inevitabilmente i sospetti dell'autorita' religiosa
e laica e per un certo periodo, l'ultimo del pontificato pacelliano,
presenziarono le riunioni annoiati poliziotti in borghese" (). Quando
venne a conoscenza del digiuno ad oltranza deciso da Danilo Dolci a Trappeto
in Sicilia per protestare contro la morte per fame di una bambina,
Capitini gli scrisse, invitandolo a sospendere il digiuno e ad informare
l'opinione pubblica. Egli lo aiutò a divulgare il suo lavoro di educazione
e di sviluppo sociale.
Nel 1953 organizzo' a Perugia il primo convegno occidente-oriente asiatico,
durante il quale egli affermo' che e' necessario "stabilire un'unita' nonviolenta
tra l'Occidente e gli altri continenti" e che "il metodo non puo' essere
che della nonviolenza, per non ripetere la passata storia di imperi,
oppressioni, distruzioni".
Intanto Giuliano Pontara si era trasferito in Svezia per non svolgere
il servizio militare ed in quella nazione aveva iniziato ad approfondire
la problematica della nonviolenza, conoscendo l'opera di Gandhi e di
Capitini. Comprese allora che, affrontando tali problemi, si entrava
in una campo filosofico e perciò decise di studiare filosofia, preparando
in Svezia la maturità classica che poi ottenne in Italia. Capitini in
questa occasione aiutò molto Pontara, correggendogli per lettera i temi
di greco.
Dal 16 al 18 aprile 1954 Capitini tenne a Perugia, insieme a Giovanni
Pioli, un seminario di lezioni e discussioni sul metodo di Gandhi.
Nel 1955 venne pubblicato il suo libro Religione aperta, nel quale Capitini
riuni' tutti i temi della sua esperienza, fra cui quello della nonviolenza.
L'8 febbraio dell'anno seguente, proprio nell'anniversario della conciliazione
tra il Vaticano ed il governo fascista, i cardinali della Suprema Sacra
Congregatio Sanctii Officii condannarono il libro ed ordinarono che fosse
inserito in indicem librorum proibitorum. Nello stesso anno Capitini
pubblicò il libretto Rivoluzione aperta, incentrato sulla nonviolenza
e sull'esperienza di Danilo Dolci, e vinse un concorso universitario,
ottenendo una cattedra a Cagliari.
Un altro congresso per il riconoscimento legale dell'obiezione di coscienza
in Italia fu tenuto a Roma il 3 giugno 1956 per iniziativa della sezione
italiana della Lega per la difesa dei diritti dell'uomo. Numerosi intellettuali,
religiosi e pacifisti aderirono all'iniziativa, tra cui Aldo Capitini,
uno degli organizzatori, Giovanni Pioli e Bruno Segre (). In seguito
alle relazioni dei professori Capitini e Jemolo, la Lega diede incarico
ad una commissione di giuristi di raccogliere gli elementi necessari
per predisporre un disegno di legge sull'obiezione di coscienza.
In risposta al decreto del Santo Ufficio che aveva posto all'indice
il suo libro, Capitini pubblicò nel 1957 il testo Discuto la religione
di Pio XII. "Ho voluto", dichiarò l'autore nell'introduzione "cercare
alcuni elementi essenziali della religione di Pio XII per vedere se
tale religione potesse essere anche la mia; e la conclusione è del tutto
negativa".
Nel 1959 pubblicò L'obiezione di coscienza in Italia ().
L'anno seguente conobbe don Milani attraverso il testo Esperienze pastorali,
che definì "il più bel libro che un cattolico italiano ci abbia dato
in questo secolo". Nell'estate del 1961 ando' a trovare il sacerdote ed
i due si dimostrarono reciproco rispetto ed ammirazione (). Nacquero
in questo e nei successivi incontri le radici dell'interesse di don
Milani per l'obiezione.
All'inizio degli anni Sessanta Pietro Pinna, dopo aver lavorato per una
decina d'anni come impiegato nella Cassa di Risparmio di Ferrara, venne
chiamato da Aldo Capitini ad occuparsi a tempo pieno a Perugia del movimento
che stava nascendo intorno ai temi della nonviolenza. Lo stipendio gli
fu dato dal filosofo umbro che lo detrasse dalla sua paga di docente
universitario.
In un momento di grave tensione internazionale Capitini realizzò, con
il Centro di coordinamento per la nonviolenza e con l'appoggio di altre
forze politiche di sinistra, la marcia per la pace e la fratellanza
dei popoli, di ventiquattro chilometri fra Perugia ed Assisi. La manifestazione
si svolse il 24 settembre ed ebbe un grande successo; l'esperienza è
narrata da Capitini nel libro In cammino per la pace. Le diverse forze
presenti alla marcia sentirono la necessità di continuare l'impegno
per la pace e nacque cosi' la Consulta italiana per la pace, alla cui
presidenza venne nominato Capitini. Fu anche costituito il Movimento
nonviolento per la pace, con segretario Capitini. Alla fine di quell'anno
si costituì a Roma un Comitato nazionale che aveva lo scopo di promuovere
una campagna per ottenere il riconoscimento giuridico dell'obiezione
di coscienza ed al quale aderirono numerose personalità, tra cui Aldo
Capitini, Guido Calogero, Nicola Chiaromonte, i deputati Paolo Rossi,
Riccardo Lombardi, Giuseppe Perrone Capano, lo scrittore Ignazio Silone
e gli avvocati Arturo Carlo Jemolo, Leopoldo Piccardi e Giorgio Peyrot.
Il primo obiettore di coscienza cattolico in Italia per motivazioni
religiose fu Giovanni Gozzini. Del suo caso si occupò anche Aldo Capitini,
che come sempre attivissimo tentò di utilizzare la nuova attenzione
dell'opinione pubblica per sollecitare una legge che permettesse l'obiezione.
In una lettera inviata a Sandro Pertini, nella quale parlava del problema
dell'obiezione di coscienza in generale e in particolare dell'episodio
di Giuseppe Gozzini, egli scriveva: "Ora sta a voi fare il massimo e
ti prego di considerare la cosa con tutta la passione di cui sei capace.
È una battaglia decisiva questa. Altrimenti voi socialisti date l'impressione
di non avere la temperatura sufficiente per sostenere il progetto che
pure avete presentato e che noi sbandieriamo sempre. Si tratta del fatto
che in febbraio credo che venga in discussione la legge Andreotti nella
forma di modifica del reclutamento militare. Bisogna vedere se e' possibile
inserire una clausola per il riconoscimento giuridico dell'obiezione
di coscienza. Noi potremo accompagnare il vostro passo, fatto con molta
energia, con un movimento di opinione pubblica. Naturalmente dovresti
darci i consigli del caso per il miglior modo di agire presso i parlamentari.
È un'occasione che non va perduta. Aspetto una tua risposta per comunicarlo
agli amici" ().
Il 26 e 27 maggio 1962 si tenne a Firenze il convegno nazionale sui
problemi del disarmo, nel quale Capitini svolse la relazione sul tema
Disarmo e politica della nonviolenza.
L'anno seguente, dal 1 al 10 agosto, organizzò a Perugia un seminario
sulle tecniche della nonviolenza.
Nel 1964 Capitini fondò la rivista Azione Nonviolenta, che divenne l'organo
ufficiale del Movimento Nonviolento.
L'anno dopo ottenne finalmente il trasferimento da Cagliari all'università
di Perugia.
Nell'aprile del 1966 si svolse a Roma il XII congresso della War Resisters'
International, durante il quale Capitini tenne una relazione su Internazionale
della nonviolenza e rivoluzione permanente. A Perugia si svolse in due
incontri, tra il 4 ed il 6 novembre e tra il 10 e l'11 dicembre, il
primo congresso del Movimento nonviolento per la pace, nel quale Capitini
introdusse i lavori con una relazione sul tema La nonviolenza nel quadro
politico e sociale. In essa affronto' il problema della crisi dei tentativi
di rivoluzione condotti privilegiando il metodo della violenza attuata
da minoranze che presumono di trasformare la societa' con la semplice
presa violenta del potere e mostro' il posto che esiste per un "estremismo"
piu' profondo, quello della nonviolenza.
Dopo una visita a don Lorenzo Milani ormai moribondo cercò di pubblicare
il suo libro Lettera ad una professoressa. Nel 1967 pubblicò l'opera
Le tecniche della nonviolenza.
Il 28 luglio dell'anno seguente, su richiesta degli amici, scrisse Le
ragioni della nonviolenza, che e' una formulazione sintetica dei suoi
concetti di nonviolento ed un po' anche il suo testamento spirituale,
visto che due mesi dopo, il 19 ottobre, morì per i postumi di un intervento
chirurgico. Sulla sua lapide nel cimitero di Perugia Walter Binni scrisse:
"Libero religioso e rivoluzionario nonviolento".
La personalità di Capitini fu senza dubbio polivalente e può essere
studiata sotto diverse prospettive. Per quanto riguarda le finalità
di questo saggio dobbiamo evidenziare l'importanza che ebbe Capitini
nel diffondere in Italia le tematiche e le tecniche nonviolente ed in
particolare a sostenere strenuamente la lotta per il riconoscimento
dell'obiezione di coscienza al servizio militare. La scelta nonviolenta
era senz'altro legata alle sue convinzioni religiose, che egli concepiva
come persuasione dell'anima e non come imposizione. "La religione è farsi
vicino infinitamente ai drammi delle persone, interiorizzare. Essa è
spontanea aggiunta, è un darsi dal di dentro e perciò libero incremento
e pura offerta, non sostituzione violenta che io voglia fare all'infinita
capacita' di decidere delle coscienze" (). La nonviolenza era per lui
soprattutto una scelta rivoluzionaria. "Non si puo' pretendere di tramutare
il vecchio col vecchio, la legge con la legge, la violenza con la violenza,
il potere con il potere" (). Capitini inoltre rifiutava la realta' sociale
negli schemi come si è sclerotizzata fino ad ora. "Non e' detto che sia<
immutabile la realtà dove il pesce grande mangia il pesce piccolo" ().
Per Capitini, quindi, la nonviolenza era anche una tecnica efficace
ed indispensabile. Egli "affermava che la nonviolenza era strettamente
congiunta al punto a cui era giunta la guerra: l'esasperazione della
ferocia provocata da essa, specialmente dopo Hiroshima, aveva posto il
problema di condurre le lotte e la stessa difesa in modo totalmente
diverso" (). Ma soprattutto la nonviolenza era per lui una scelta
etica e di persuasione personale. "Io non dico: fra poco o molto tempo
avremo una società che sarà perfettamente nonviolenta. (...) A me importa
fondamentalmente l'impiego di questa mia modestissima vita, di queste
ore o di questi pochi giorni; e mettere sulla bilancia intima della
storia il peso della mia persuasione" ().
Bisogna ammettere che l'opera di Capitini, nonostante la sua elevatezza,
non ottenne il riconoscimento e la diffusione che avrebbe meritato. Come
mai? Probabilmente egli precorreva i tempi e vedeva piu' lontano dei politici
della sua epoca e pertanto non fu capito. Aldo Capitini parlava di nonviolenza
quando la lotta armata sembrava essere l'unica via di ribellione, evidenziava
i contrasti fra il nord ed il sud del mondo quando tutti si fermavano
alla contrapposizione fra i blocchi dell'est e dell'ovest e lottava
contemporaneamente contro l'assoluto del potere (l'Unione Sovietica)
e l'assoluto del benessere (gli Stati Uniti d'America) quando ognuno
cercava di assimilarsi ai feticci proposti dalle ideologie dello Stato
o del consumo. Goffredo Fofi, che visse per un pò accanto a Capitini,
intervistato sull'argomento dall'autore attribuisce la colpa dell'incomprensione
nei suoi riguardi alle chiusure dell'epoca in cui l'intellettuale umbro
si trovò ad operare. "Quegli anni vedevano l'Italia divisa tra forze
che in modo diverso non potevano accettare davvero Capitini: il mondo
cattolico di Pio XII e della D.C. dominato dalla logica della guerra
fredda e particolarmente repressivo, intollerante, fazioso; una sinistra
condizionata dall'U.R.S.S. staliniana e dai fideismi marxisti; i laici
poco forti(contrariamente ad oggi) e spesso arroccati al loro perbenismo
piuttosto classista. Con il primo il dialogo fu pressoche' impossibile,
se non nelle frange e nei margini (don Mazzolari, don Milani, Nomadelfia,
La Pira); i secondi seppero tatticamente servirsi di Capitini ma nella
chiave di un pacifismo che in realta' Capitini non poteva amare (il pacifismo
dell'equilibrio tra potenze, del mantenimento dello statu quo, cui egli
giustamente contrapponeva le istanze della liberazione); i terzi erano
poi ancor piu' distanti nonostante molte lotte comuni, proprio per il
loro rifiuto alla considerazione di un pensiero che era e si voleva
religioso" (). Inoltre non bisogna sottovalutare la posizione di marginalità
geografica della città in cui il filosofo si trovò a vivere e ad operare.
È interessante confrontare l'opera di Capitini con quella di Gandhi.
Al di là delle differenze di personalità, bisogna evidenziare che in
Italia non c'era una tradizione nonviolenta religiosa, come invece esisteva
in India. Pertanto il Mahatma lavoro' su un terreno fertile dal quale,
seminando, si poteva sicuramente raccogliere frutti. Diverso fu il quadro
in cui si trovo' a vivere Capitini. La religione cattolica non solo non
aveva una tradizione nonviolenta, ma addirittura in diverse occasioni
aveva ispirato guerre o comunque le aveva avallate. Inoltre l'Italia
proveniva da un secolo, l'Ottocento, in cui l'indipendenza e l'unità
nazionale erano state ottenute con una lotta violenta. Probabilmente
se Capitini avesse ottenuto almeno un appoggio culturale, avrebbe avuto
un successo maggiore. Per lui si può parlare di una marginalità che provenne
dai suoi stessi amici. Infatti le persone che lo seguirono nelle iniziative
del dopoguerra furono diverse da quelle che gli erano state compagne
negli anni dell'antifascismo. D'altronde egli non fece mai proselitismo
con i suoi amici e la sua ispirazione religiosa fu unica e fu la discriminante
che segno' la sua differenza dagli antichi compagni. Norberto Bobbio
afferma che egli si mosse nella sfera del religioso, la quale non ebbe
contatti con quella del pensiero laico se non in un'occasione: la lotta
al fascismo. Sembra comunque che i comunisti si siano resi conto dell'occasione
che hanno mancato non prestando attenzione alle potenzialita' di quest'uomo.
Sono sintomatiche alcune parole scritte su "l'Unita'" e che valgono quasi
come una confessione: "Capitini non aveva la forza e la capacità del
nostro partito. Egli lotta solo, non sufficientemente appoggiato neppure
da noi. (...) Un uomo che non sapemmo capire abbastanza" ().
Quale peso allora ha avuto nella storia italiana la presenza di Aldo
Capitini? E' certamente troppo presto per emettere una sentenza di carattere
storico. In ogni caso egli fu sempre perfettamente consapevole del fatto
che il compito che si era assunto era difficile e straordinario. Egli
doveva realizzare la speranza in mezzo all'indifferenza generale. E sapeva
che non doveva limitarsi ad essere un utopista, cioe' colui che disegna
una stupenda struttura di societa' ideale ma ne rinvia l'attuazione a
tempi migliori, ma doveva essere un profeta, cioe' colui che comincia
subito, qui ed ora. Pertanto, benche' Capitini risulti un personaggio
marginale nella storia e nella cultura nazionale del dopoguerra, non
lo e' affatto per quanto riguarda la storia e la cultura della nonviolenza
in Italia. Egli ebbe un compito innegabile nella diffusione nel nostro
Paese della teoria e della pratica del metodo gandhiano e "dobbiamo
a lui se oggi la nonviolenza ha una certa maturità e credibilità in Italia"
(). Inoltre e' certamente merito suo se nel nostro Paese abbiamo ancora
oggi una visione della nonviolenza come scelta etica di vita e non solo
come metodo efficace di lotta. In tal senso l'obiezione di coscienza
venne inquadrata non soltanto come mero rifiuto di svolgere il servizio
militare, ma come gesto che invitava a rivolgersi verso un futuro diverso.
Il ruolo di profeta fu il suo merito e contemporaneamente il suo limite.
Merito per aver additato, con la sua vita piu' che con le sue parole,
una strada possibile da percorrere. Limite perché il profeta parla
senza essere ascoltato, vine ammirato ma non seguito, i suoi insegnamenti
vengono compresi solo dopo diverse generazioni e guardando lontano
non riesce ad incidere sulla realtà che vive. Più che una sua scelta,
però, il profetismo fu una gabbia in cui lo rinchiuse la sua epoca.
Sergio Albesano
() A. CAPITINI, In cammino per la pace. Documenti e testimonianze sulla
marcia Perugia-Assisi, Einaudi, Torino 1962, pag. 14.
() Cfr. A. CAPITINI, Religione aperta, Guanda, Modena 1955, pagg. 270
272.
() Cfr. A. CAPITINI, Aggiunta religiosa all'opposizione, Parenti, Firenze
1958,pag. 217.
() Cfr. A. CAPITINI, Nuova socialita' e riforma religiosa, Einaudi, Torino
1950, pagg. 92-94.
() N. BOBBIO, Maestri e compagni, Passigli Editori, Firenze 1984, pag.
280.
() Cfr. M. SOCCIO, Capitini e il fascismo, in Critica liberale, maggio
agosto 1983, pag. 51.
() F. TRUINI, Aldo Capitini, Edizioni cultura della pace, San Domenico
di Fiesole FI 1989, pag. 102.
() "Il nuovo corriere", 8 luglio 1948.
() Cfr. A. CAPITINI, Italia nonviolenta, Libr. Intern. Avanguardia,
Bologna 1949, pag. 47.
() C. CUTINI (a cura di), Aldo Capitini Uno schedato politico, Editoriale
Umbra, Perugia 1988, pagg. 185-186. Sul tema dell'atteggiamento della
Repubblica nei riguardi di Aldo Capitini il libro e' molto interessante.
Riportiamo qualche esempio. Nel novembre 1949 il Questore di Pisa scriveva:
"Sono qui appena due o tre gli intellettuali che dimostrano di interessarsi
alle teorie del Capitini, il quale, poi, dagli altri pochi intellettuali
che lo conoscono, viene schernito ed additato come colui che vuole riformare
la religione servendosi di 'vecchie zitelle e di preti spretati'" (pag.
203). Nel luglio 1950, si noti l'anno, il Questore di Cremona, in riferimento
ad una lontana richiesta del Questore di Perugia dell'Italia di Salo'
(aprile 1944) chiede di sapere se Capitini sia ancora ricercato! Ed ancora
nel dicembre 1958 il Questore di Perugia riferisce al Ministero dell'Interno:
"Egli, nel suo continuo desiderio di emergere ed allo scopo di elevarsi
dalla mediocrita' e costituirsi un seguito, nel 1952 si fece promotore
in Perugia del 'centro di coordinamento internazionale per la non violenza',
del 'Centro di Orientamento Religioso' (C.O.R.) e della 'Societa' Vegetariana
Italiana, pure oggetto di precorsa corrispondenza. Queste iniziative,
come le altre da lui tentate, non suscitarono il benche' minimo interesse
in questa popolazione e lo stesso Capitini non consta che abbia un seguito
apprezzabile, essendo noto per la sua megalomania" (pagg. 242-243).
() Un interessante studio, al quale rimandiamo, sulle idee di Aldo Capitini
sull'obiezione di coscienza e' contenuto in P. POLITO, Capitini e l'obiezione
di coscienza, in "Il Poliedro", n. 15-16, luglio-dicembre 1988.
() P. PINNA, Capitini e l'obiezione di coscienza, in Azione Nonviolenta,
settembre-ottobre 1978, pag. 17.
( A. CAPITINI, Obbiezione di coscienza e tramutazione) religiosa, in
"Cittadini del mondo", 30 agosto 1949. A. CAPITINI, L'obbiezione di coscienza
in Italia, la seconda condanna del giovane Pinna, in "Il nuovo correre",
1 novembre 1949.
() A. CAPITINI, L'obiezione di coscienza ci portera' alla fine della
coscrizione obbligatoria?, in "Cittadini del mondo", febbraio-marzo 1950.
() M. MELELLI, Aldo Capitini, in "Bollettino della Deputazione di storia
patria per l'Umbria, LXVIII (1971), n. 2, pag. 154.
() Cfr. Gli obbiettori di coscienza saranno riconosciuti dalla legge?,
in "L'incontro", luglio-agosto 1956.
() Editore Lacaita, Fasano di Puglia.
() Lanfranco Mencaroni, che fu testimone dell'incontro, ricorda l'avvenimento
con una freschezza che denota quanto la memoria di quel giorno sia rimasta
viva nella sua mente. "Un giorno dell'estate successiva, 1961, insieme
a Pio Baldelli accompagnai Capitini nella sua prima visita a Barbiana.
Don Milani viveva lì dal 1954, ma dovemmo fare a piedi l'ultimo chilometro
perché non c'era ancora una strada carrozzabile fino alla chiesa e alla
scuola di Barbiana. Come succedeva con tutti i visitatori, la nostra
visita si trasformo' in un interrogatorio di Capitini da parte di tutti
gli allievi della scuola, che erano stati informati da don Milani sulle
sue idee religiose, sui libri che aveva scritto, sulla sua posizione
di nonviolento e vegetariano. Il colloquio avvenne all'aperto, sotto
l'ombra dei grandi alberi di Barbiana e prosegui' durante il pranzo, la
siesta, fino alla partenza. Capitini e noi fummo molto impressionati
dalla personalita' di don Lorenzo, dallo spirito e dall'organizzazione
della scuola di Barbiana" (L. MENCARONI, Capitini e don Milani, in "Azione
Nonviolenta", settembre-ottobre 1978, pag. 15.)
() Copia di lettera del 5 gennaio 1963 senza firma ma certamente di
Aldo Capitini, presente nel Centro Aldo Capitini di Perugia, inviata
a Sandro Pertini.
() A. CAPITINI, Vita religiosa, Cappelli, Bologna 1942, pagg. 69-70.
() Cfr. A. CAPITINI, Politica e tramutazione, in "Il mattino del Popolo",
30 giugno 1948.
() A. CAPITINI, Apertura e dialogo, in "La Cultura", n. 1, 1963, pag.
13.
() A. AREDDU, Aldo Capitini, la via italiana al gandhismo, in "il manifesto",
13 agosto 1988, pag. 10.
() A. CAPITINI, Elementi di un'esperienza religiosa, Laterza, Bari 1937,
pag. 52.
() G. FOFI, Aldo Capitini, in "Animazione sociale", n. 1, gennaio 1988,
pag. 33.
() A. ZANARDO, Aldo Capitini, intellettuale tra nonviolenza e solidarietà
Le schedature di due polizie, in "L'Unita'", 21 dicembre 1988.
() A. MAORI, Ricordo di Aldo Capitini, in "L'incontro", gennaio 1989.